Ypsigrock 2013: day 3 – Human touch
di 2bePOP - 13 agosto 2013
Parole di Marcello Farno
Foto di Serena Belcastro
Ci mancava. Dopo quello che avevano riservato il venerdì e il sabato non poteva non andare meglio, altrimenti avremmo dovuto affannosamente iniziare a credere alla cabala e ai presagi storti del numero 17. È bastato aprire le finestre di prima mattina per capire che su questa domenica si sarebbe alzato il sole. Finalmente direbbe qualcuno, c’avevo quasi preso gusto chioserebbero i pochi altri.
The great Ypsigrock swindle
È il giorno degli Editors, e tutti siamo a conoscenza dei mesi di mugugni e bocche storte da parte di chi, con l’etica e l’estetica cucite addosso, il festival lo segue da sempre. Preferisco per ora non dilungarmi, magari ci torniamo dopo, il punto è che, al netto delle presenze, la cosa mica abbia poi scombussolato come ci si aspettava. Così atoni e inconsistenti, che il giorno dopo neanche le critiche feroci avrebbero avuto senso. Sorvoliamo.
Chi invece un senso lo trova, col passare del tempo, è il second stage, Ypsi & Love. Con ancora tanti piccoli particolari da limare, ma finalmente un posto bello dove poter fruire di lineup, vino e musica in maniera altra rispetto al solito. Più festival, ancora più Europa. Ci suona prima unePassante e poi, con un medaglione al collo, glaciale e patinato, Indians. Cadono giù applausi per dei pezzi così rotondi e allo stesso tempo nudi che è difficile trovare in giro. Soprattutto, il ragazzo su quel palco si muove e se la suona col piglio del musico scafato. Elettroniche mai invasive e la voce, carica di sfumature, che si muove libera su tutto. Sembra una versione un tantino più puttana (nel senso di pop) e efebica del Deptford di ieri. Ridurre all’osso, svuotare e minimalizzare ormai pare piaccia a tutti.
Deve essere così per una sorta di compensazione che dall’altra parte scelgono ad aprire le danze quei musi lunghi dei Metz. La storia è messianica, la solita che si ripete ad ogni celebrazione di quella grande manna dal cielo che è l’hardcore. E, signori, basta salire sul palco e attaccare due jack per far venire giù il mondo. Cazzo, finalmente. Loro hanno la patina dei trentenni sbruffoncelli, gonfi di birra e violenza repressa. E capisci che non c’è nessuna mossa dietro, tutto vero, tutto dritto. Come Cristo comanda.
Chi invece sembra abbia studiato all’accademia dello spleen e del dramma è quel francesone di Rover. Sono onesto, ma dopo la botta dei Metz reggo a fatica due pezzi e poi mi butto a testa bassa nel solito giro di social relations con tutta la cerniera di pubblico presente da ogni angolo del paese.
Deve essere per lo stesso motivo che i Local Natives ci mettono un bel po’ a farmi sfregare le mani. Partono con dei volumi ridicoli all’inizio, gli strumenti tutti impastati e le voci che sembrano uscite da un karaoke midi. Fortuna che hanno delle belle canzoni che riconosci subito, ti attacchi a delle parole, cerchi di andarci dietro. La sensazione è quella di avere a che fare con qualcosa di eccessivamente lavato, ma, ripeto, ciò non toglie la bravura e la magia che creano sopra e sotto il palco. Demerito di una lineup sinusoidale che alterna picchi di rumore ad attimi di così tanta quiete, che vabè, mica siamo robot, dentro i pezzi ci viviamo, lo sapete. Calibrate meglio la prossima volta.
Sugli Editors le parole da spendere sarebbero veramente poche. Tom Smith ha ormai la sindrome da Bono Vox e Chris Martin del quartiere. L’ultimo disco è così sottotono che su quei pezzi ci sarebbe voluto Chris Urbanowicz a regalare più mordente, ma tant’è. Il punto è che l’assenza di quello che era l’uomo cardine nei live si sente pure nella roba vecchia, che tutta quella patina epica che avevano le varie “Munich” e “An end has a start” svanisce. Rimangono le canzoni, le canti a memoria, ma l’effetto fotografia ingiallita è già brutto da vedere, figurati viverlo e cercare di lasciarci addosso il sentimento. Il pubblico di Vasco ovviamente sembra non capire, ascolta tutto a orecchie sorde, alza le mani, grida e si sbraccia e poi ha pure il coraggio di venirti a dire che è stato fantastico. L’unica risposta rimane la solita fuga in bicicletta al Cycas.
Fortuna che per riprendersi ci sono bombe e bottigliette che si spacciano in campeggio. Un dj-set magnifico (senza esser di parte) con Fabio Nirta e Robert Eno che mettono a cuocere assieme techno secca e cruda, acid e no-wave che fanno muovere e squitinziare tutti fino all’alba. Dicevano non gli piacesse. Ma in the beggining there was the rhythm, ricorda.
In conclusione, non diremmo cazzate a scrivere che l’edizione che anticipava l’ingresso nel mondo dei grandi di questo Ypsigrock partiva con le aspettative peggiori degli ultimi cinque-sei anni. Sia chiaro, a mettere in discussione l’humus e l’ambiente nessuno ci avrebbe mai pensato (Dio protegga Piazza Castello, le panelle e la birra a 3 euro, siempre). Piuttosto uno le domande se le faceva scorrendo la lineup e ripensando a ciò che negli anni era passato su quello stesso palco. Non che mancassero i nomoni però era anche accettabile che con quelle scelte lì (Editors, Erol Alkan, già lo sai) qualcuno ti sputasse un po’ nel piatto. Che sia successo o meno poco importa, alla resa dei conti ho visto quattro/cinque artisti veramente micidiali, alcuni frenati dai problemi della pioggia, altri abbastanza imbarazzanti, altri ancora più semplicemente deludenti. È mancata la continuità tra un live e un altro questo sì, avevi a disposizione una compressa al giorno che di questi tempi è veramente poco. Ma nell’economia di un anno difficile ci sta, non voglio dar troppe colpe ai ragazzi che 12 mesi all’anno si sbattono con ardore e spinta impareggiabili. E la pioggia, ripeto, ha fatto il suo, ai contraltare epici (vedi Shout Out Louds) ha regalato anche tanto disagio e momenti di stanca inaspettati.
È stata un’edizione con realmente scritte sopra il cuore tante di quelle faccende per tutti emotivamente personali, che quasi quasi, a un certo punto, ti sporgevi e contavi più lacrime che pioggia. In questo, incredibilmente spontaneo e umano, come le migliori cose che accadono in questo mare italiano di provincia. Con un pubblico che nella sua frangia più vera rimane una spanna sopra tutti gli altri, in qualsiasi luogo e lager di cultura della nazione.
Pertanto, mi piace pensare a questo Ypsigrock come chi rimane fermo sulla soglia, in attesa di chiamarsi adulto (l’anno prossimo sono 18, attenti). Che ci passino sopra piccole incertezze una volta tanto, ça va sans dire, appare anche naturale. Ma il punto più importante rimane quella dose di purezza che è DNA, genetica, scritta con il sangue. E non la lavi mica via.