237 X 10 = una pagina del rock
di 2bePOP - 21 marzo 2013
Eroi. Ogni era hai suoi. Nel rock degli anni 90 erano quelli legati al punk o al rap dei movimenti antagonisti, grazie a esperimenti che, per mezzo del cantato in Italiano, parlavano agli amici del bar e a quelli con i quali si condividevano anche altre barricate. Oggi gli eroi sono cantautori. Un po’ come 50 anni fa. O altri rapper magari. Perché il tempo è ciclico e le parole sono importanti. Ma cosa è successo nel mentre?
Da raccontare ai figli che i blaschi sostengono non avremo abbiamo un mare di cose. Saranno di moda tra qualche anno, con quel ripescaggio che rispolvera il passato per la paura di essere già in un futuro che promette vecchiaia e amarezze tipiche della vita. Anche questo è ciclico. E poi se il vino è buono e lo si mantiene bene acquista valore. E allora ecco il decennale di una di queste stanze della memoria. Sono passati già due lustri e sembra impossibile. Però, ora che i Mogway sono pane e nutella per i giovani alternativi e l’indie è trendy come le calze di pizzo della Madonna (o forse sono sempre le cosce della madonna a stabilire trend della minchia?), è tempo di raccogliere i remi in barca e di un mare di ricordi, almeno per un’istantanea.
Nella hall c’è il genio di Kubrick. All’interno di un castello albergano sogni e cavi di rete che conducono l’onirico fino all’altra parte del mondo. Le aspirazioni volano low-cost fino all’altrove, ed è ancora presto per condurli a Palo Alto. Ora che MySpace è già modernariato riportare la memoria sui suoi player fa molto scimmie artiche insomma. Era allora. Anno del contatto 2003. Quattro ragazzi con la chitarra e pianoforte sulla spalla, direbbero Antonello o Corrado Guzzanti. All’uscita 237 c’è, concedetemi la citazione, la Camera. Stanley sa, si è già detto. Si ispirano a visioni in cellulosa, caricavano file nel loro Gesù personale dopo lo slash e creavano una pagina del rock. O tu hai fatto di meglio?
Camera 237. Dieci anni di musica. Bassisti che vanno e vengono, autostrade prese in furgone, dischi che saturano i brani prima solo strumentali in canzoni adesso, un lavoro per pagarsi la vita, mente si sogna un palco più grande, questo è successo nel frattempo. Inizialmente, come l’epica del r’n’r vuole, c’era solo un garage metropoli(s)tano . Inizialmente, come l’epica del suono solo strumentale vuole, era poesia filmica messa sul pentagramma con l’urgenza che non conosce spartiti. Oggi qualcosa è cambiato.
MySpace è morto. Il tempo libero è poco. L’indie è moda. La vodka sembra sempre ormai poca. I sogni sono diventati realtà con cui combattere ogni giorno, per passare a quello successivo. Kubrick è morto. Ma in quella stanza albergano sempre degli eroi. Ragazzi diventati adulti e ai quali i nuovi giovani non diranno mai grazie per l’ispirazione. Sono passati già 10 anni. Fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene, come in un mantra da recitare mentre il presente precipita da un palazzo di 50 piani.
Vivi. C’è da festeggiare dunque. E riecco i sogni, riecco il vecchio bassista, riecco l’album Vectorial Maze, anzi eccolo su vinile, senza che due lustri di polvere abbiano danneggiato solchi vergini che prima erano zeri e uni su cd. Non è una ristampa ma un disco volante: il futuro era allora, lungo una linea che non è quella del kronos, almeno per l’arte, e lo spazio resta, dunque, un vuoto da riempire.
Si tratta quattro uomini adesso, sì, ma quelle tracce non sono invecchiate: hanno il sapore del buon vino da stappare per le grandi occasioni. Perché intanto è successo il putiferio. Cosa? Le puntate precedenti vanno lette Always, Never, Again perché i riassunti non hanno sudore ne’ profumo. Si sappia solo che il regista sotto il palco è diventato un piccolo Kubrick del videoclip e ha regalato alla band, in occasione del decennale e della ristampa del vinile, questo videoclip: un riedit del film “The Bothersome Man” (Jens Lien, Norvegia, 2005, 95 min) assemblato, appunto, da Giacomo Triglia appositamente (lo vedete qui in esclusiva ndr) . Io ci ho messo un pizzico di poesia in questa narrazione scritta con sangue e vomito. Fabio Nirta gli ha dato il palco di casa sua, prima dello sfratto. Perché rimaniamo sul filo di un rasoio che taglia come l’aria che ci negano, come i sogni divenuti realtà amara e vicolo cieco, come l’accetta che minaccia il capo quando i 40 sono lì e noi ancora in furgone per il prossimo festival. Non siamo dunque Eroi? Auguri, Camera 237, e 100 di questi dischi.
Stefano Cuzzocrea