Un’idea di bellezza
di 2bePOP - 7 maggio 2013
Come il diamante, che si distingue per l’esclusiva capacità di esaltare il passaggio della luce, analogamente essa riesce nell’ardua impresa di trasformare la materia, arrivando a solleticare il sovrannaturale che vi si incarna. Qualche saggio luminare del passato l’ha definita così, la bellezza, e non era certo De Beers in preda ad un incontrollabile attacco di autostima o conflitto d’interessi del caso. Il santone in questione anzi la sapeva lunga circa la classica avidità umana che si innesca di fronte ad un tesoro, metaforico o meno che sia. E se un giorno venisse finalmente svelato il segreto che si cela dietro al tanto prezioso mistero della percezione estetica, chi non si improvviserebbe cercatore d’oro alzi la mano. Perché tutti, oggi come non mai, avremmo un bisogno a dir poco viscerale di maggiore bellezza nella nostra vita. Che possa bastare Un’idea di bellezzaallora, giusto una, a fornirci la chiave per moltiplicare all’infinito la possibilità di esercitarla a piacimento? Questo il semplice quanto ambizioso postulato alla base della mostra che siamo a suggerirvi, composita collettiva di ben sette artisti internazionali, con l’autoctona “ospite” di turno a ricordarci che siamo in Italia, visitabile presso il Centro di Cultura Contemporanea Strozzina di Firenze fino al 28 Luglio 2013. La ghiotta occasione che attendevamo, servita sul piatto d’argento, per elocubrare a (s)proposito su una moltitudine tale di tematiche da fare concorrenza alle sfaccettature del diamante più magistralmente intagliato. E non potevamo certo esimerci dal dispensare la nostra perla/pietra di saggezza quotidiana, pop a tutti gli effetti ovvio.
In fondo, un’idea di bellezza, intesa in senso letterale e non nella chimerica veste del bello in sé, dovremmo averla noi tutti, esattamente come siamo per natura provvisti degli strumenti, razionali ed empirici, attraverso cui poterla esperire. O perlomeno c’è da augurarselo, sperando che qualche barlume di autenticità ci sia rimasto, in un sistema di valori che ha fatto del copia e incolla molto più di un semplice tasto del Pc (del Mac pardon, eresia!). Ma se l’idea in questione, bagaglio prenatale permettendo, finisce per essere solo subita e non esercitata come dovrebbe, ecco che il presunto potenziale di appagamento diviene una mannaia con cui sadicamente flagellarsi, e il raggiunto piacere l’utopica vittoria di Pirro, o velo di Maya che dir si voglia. E così, vittime inermi delle ammiccanti lusinghe edonistiche, perdiamo di vista ciò che a questo stesso piacere ci conduce in prima classe, ovvero le intrinseche e sottili dinamiche che ne sottendono il processo percettivo: la classica gallina domani per intendersi. Poveri di quella coscienza indispensabile a dominare gli ingranaggi di un meccanismo relazionale tanto ineffabile quanto suggestivo, quella consapevolezza che, posseduta, ci renderebbe finalmente liberi. Un po’ come assaporare affamati un bocconcino di un piatto prelibato, e davanti alla possibilità di divorarlo tutto, non trovare le posate. E le mani non contano, perchè non siamo mica animali. (Sì, la sindrome da Masterchef non risparmia proprio nessuno lo so).
Sorge spontaneo allora trovare un capro espiatorio, onde de-responsabilizzarsi meglio. Peccato che sia impossibile. Questione di semplice mancanza di allenamento, o dell’atavico ottimismo egocentrico che contraddistingue da secoli l’essere umano pensante e la sua smania di controllare tutto? Entrambe, anzi si può dire che l’una tira l’altra, se pensiamo a quanto l’inerzia celebrale non sia altro che la più furba forma di fittizia superiorità. E come biasimarci: difficile rimanere vigili, quando a supplire viene prontamente in soccorso un tempio secolare di armonici pilastri formali eretto ad hoc in anni e anni di battaglie (perse) con la realtà naturale, tanto per incastonare come si deve le nostre paure in un instabile quanto artefatto Eden di certezze condivise. D’altronde, il conformismo ha i suoi vantaggi. Salvo poi, tanto per non farci mancare proprio nulla, sfoderare l’asso nella manica di demolirlo all’occorrenza, liberi di navigare nel caos di un’anarchica giungla di valori, paleolitica quanto l’improbabile forma di darwinismo dogmatico al contrario cui siamo giunti ad oggi, roba da far rivoltare i più convinti evoluzionisti nella tomba. Il bello oggettivo che diventa soggettivo, dando luogo ad un relativismo talmente confuso da interferire con la positività implicita nel significato originario, macchiandola di superficialità e inettitudine. Si veda l’immagine a dir poco edificante che ne arriva attraverso i media, esempio illuminante su quanto siamo i migliori della classe nello stuprare i concetti, si riuscisse così bene in altri campi crisi significherebbe, davvero, e non per mero spirito ottimistico-caritatevole, rinnovamento.
Ma come si può perseguire un concetto così astratto da necessitare di un codice normativo a dir poco grottesco per essere definito? A giudicare dal pensiero della curatrice, Franziska Nori, il segreto risiede proprio nel potere mediatico dell’opera d’arte: sì, finalmente abbiamo trovato un ruolo a questa tanto millantata “arte contemporanea”, e potremo citarla a ragion veduta, in barba alla reverenza onomatopeica che il solo pronunciare la parola incute. Conciliando la tradizionale contraddizione tra pensiero e sensibilità che da sempre ne esemplifica l’ossimoro, essa si rivela unica e sola custode di un’idea di bellezza tangibile attraverso i sensi, capace di arrivare fino a perpetrare lo spirito stesso. Dimostrando come lo scopo ultimo dell’arte non sia né l’imitazione dell’otticamente corretto, né il tentativo romantico di suscitare sentimenti o purificare passioni, nè tantomeno l’ammaestramento etico-morale; ma si risolva nel rivelare l’apparire sensibile di un processo del tutto naturale, lungo il quale lo spirito si libera dall’esteriorità della natura per ritornare alla piena comprensione di sé, amalgamando l’universalità metafisica con la determinatezza della particolarità del reale. Amen. In parole “povere”, l’opera d’arte altro non è allora che “essenzialmente una domanda, un’apostrofe rivolta ad un cuore che vi risponde, un appello indirizzato all’animo e allo spirito”. Et voilà, così abbiamo trovato un ruolo anche ad Hegel! Per questa volta non mi toccherà scomodare Bastianich, grazie.
Attraverso le differenti visioni degli otto artisti, la mostra disegna quindi un percorso di passaggio, un divenire in cui ognuno degli aspetti per tradizione caratterizzanti della bellezza viene affrontato, estrapolato, ed infine trasceso, educando non alla nozione per antonomasia, ma all’atteggiamento giusto per esercitarla, a quella disposizione d’animo necessaria a priori per trasfigurare in positivo il rapporto col reale; e raggiungere così la purezza di uno status quo estetico finalmente autonomo e compiuto, che ci permetta di mantenere intatta la nostra più intima individualità. Via almeno questo concediamocelo, visto che si fa acqua da tutte le parti. In tutti i casi esposti, dalla contemplazione, per dirla alla Kant, misterica del sublime matematico nei quadri di Wilhem Sasnal, così come nelle installazioni di Alicjia Kwade e Chiara Camoni, fino a quella catartica del sublime dinamico nel video di Isabel Rocamora, si parte dal sensibile per arrivare a percepire una dimensione di metafisica armonia degli opposti, in bilico tra spirito e materia, universale e particolare, finito e infinito, ottenuta spesso con poco o nulla, solo concentrando l’attenzione laddove non siamo abitualmente allenati a rivolgerla, per pigrizia o per vigliaccheria: nella semplicità di un gesto quotidiano, che sia naturale o frutto del progresso (Jean-Luc Mylayne e Andreas Gefeller), piuttosto che nella violenza silenziosa di una performante degenerazione di carattere morale (Vanessa Beecroft). Non trascurando neppure il ruolo strettamente etico di cui la ricerca estetica è sempre più investita nel panorama contemporaneo, l’urgente valenza sociale che il video di Anri Sala testimonia con un rinnovato realismo ottimista, in cui i colori della bellezza intervengono a illuminare, risanandole, le crepe di una società post-socialista dai chiaroscuri netti come le ombre del suo doloroso e recente passato.
Ma non perdiamoci d’animo: (anche) la bellezza non è certo immune dalle ombre, anzi sono quegli atomi di negatività che la compongono ad attribuirle un potenziale dalla devastante capacità seduttiva, ne abbiamo esempi continui sotto gli occhi. Ma in fondo è proprio questa esponenziale portata catastrofica ciò che più intimamente ci lega ad essa. Quel che di imperfetto che la avvicina all’uomo, che la rende a tutti gli effetti bisognosa del difetto per poterlo superare, in un’alternanza dialettica tra forze opposte che è la sola plausibile via per la perfezione assoluta. Insomma anche la bellezza è bipolare, Dottor Jekyll e Mister Hyde colpiscono ancora. A dir poco consolante per noi povere vittime quotidiane del peccato, e della bruttezza più dilagante. Ecco, questo senso di epicurea convi-connivenza con i propri fantasmi, è l’idea(le) di bellezza che rimandano egualmente tutti gli otto artisti in mostra: come la decantava bucolico Schiller, “un calmo paese delle ombre, in cui l’ideale se ne sta unito con sé stesso nell’esteriore, liberamente poggiando su di sé, come sensibilmente in sé beato, di sé stesso gioendo e godendo”. Insomma, abbiamo pure la coscienza a posto: largo alle ombre e agli sbagli, tanto siamo tutti belli lo stesso ollè.
Sarah Venturini
VANESSA BEECROFT – CHIARA CAMONI – ANDREAS GEFELLER – ALICJIA KWADE – JEAN-LUC MYLAYNE – ISABEL ROCAMORA – ANRI SALA – WILHEM SASNAL – UN’IDEA DI BELLEZZA
a cura di Franziska Nori
Centro di Cultura Contemporanea Strozzina di Palazzo Strozzi, Firenze
Dal 29 Marzo al 28 Luglio 2013