Tre mesi (e un’estate) senza Stefano

di Marcello Farno - 13 luglio 2015

stefanodi Eugenio Furia

Una mattina di tre mesi fa ci siamo svegliati tutti con gli occhi gonfi per il pianto della sera prima, col pianoforte iniziale di “Ogni singolo giorno” per sottofondo e la sensazione come di un ventennio che si chiude. Che siamo diventati adulti lo diciamo ogni volta che un amico ci lascia, bel modo per auto-convincercene, poi quando un altro se ne va a quarant’anni ripetiamo per l’ennesima volta che dobbiamo fottercene delle nostre miserie e meschinità quotidiane. Che le priorità sono altre.

Secondo me il 13 aprile abbiamo tutti recuperato le chiacchiere in chat con Stefano, le cose che ci siamo detti e scritti. Era un inventore di uno slang panglish – nel senso di Paola+english – che ci divertivamo a usare anche noi per sentirci come lui. Fare le sue battute fulminanti però era difficile, e nei post del periodo nichilista ha dato amaramente il meglio di sé, però ci ha regalato delle lezioni sulla vita che fanno ancora male come un calcio nei coglioni più che un pugno nello stomaco. Cuzzo era un folletto visionario che usava le parole benissimo, anche quando non scherzava. Soprattutto quando non scherzava. Però scherzava spesso: “Pillamaròòòòò”. “Accùcchiala ccà”. “E cose”, sempre: molti hanno usato da subito (e continuano a farlo) questa specie di password per dialogare con lui su fb a distanza.

Scherzava pure sul caso incredibile di un suo omonimo attuale compagno dell’ex moglie. Quando si parlava di musica però diventava serio, addirittura serioso, un talebano rispettatissimo anche da chi non concordava con lui. Aveva un lato oscuro che si addensava in momenti quasi paranoici che lui stesso poi provvedeva a scacciare naturalmente con una battuta o una formuletta delle sue. Una su cui ridevamo sempre oggi mi sembra una nemesi: «il coccodrillo come fa» quando morì Amy Winehouse e lui scrisse, come spesso accadeva, lo status definitivo. Era il primo memorial per Dj Marcio, ridevamo; l’anno prima ci eravamo abbracciati fortissimo al suo funerale, e piangevamo.

[Nell'estate '96 c'era una jam di Lugi sul Tirreno cosentino, credo a Cittadella. Eravamo io e Raffaele. Stefano si presenta con un batuffolo che poi abbiamo scoperto essere la figlia. La colonna sonora del periodo era “Living proof” dei Group Home, Luigi che si chiamava ancora Dj Louis rideva ripetendoci questo verso: «ninety-five is yours / two thousand is mine», il '95 è tuo ma il 2000 è mio, rideva a 10mila denti con la faccia di quando ti vuole fare capire che siamo davanti al Genio, mentre spulciava tra i vinili (in gergo è il Diggin' in the crates) nelle leggendarie “cascette” di plastica, quelle della frutta che caricava sulla LugiMobile. Mirko iniziava in quei giorni a fare free-style e c'era anche quel pomeriggio, gli faceva domande in ginocchio come si fa davanti a un santone, l'autunno dopo sarebbe iniziata la nostra piccola golden age a Radio Ciroma (da via Montesanto a via Sabotino), l'amicizia con Marco e appunto con Stefano+Macro e la Paola Tribe, le serate di Marcello allo SpazioZero e poi in tutti gli altri locali — molti sono durati così poco che manco ricordo i nomi. Ai primi del '97 un concerto dei Sud Sound System al Dopolavoro ferroviario di Paola ebbe una parentesi ciromista, nel pomeriggio seguente, con jam aperta che durò forse 8 ore – Lucky dovrebbe avere ancora la registrazione in cd – e attirò un sacco di gente che sentiva il casino sui 105.7 e decideva di passare per godersela dal vivo, dopo essersi fatta inghiottire nel sottosuolo scendendo quei 3 gradini di ferro malfermi; la diretta causò qualche maldipancia nella vecchia guardia ciromista oltre che fra i detrattori di rap, reggae e affini (a Ciroma ci sono sempre state queste spaccature)].

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Di quel periodo restano soprattutto perle sotto forma di mixtapes. In “On da real”, credo, c’è una strofa favolosamente ciotìgna di Stefano: l’ultima volta che l’ho visto, sotto Natale al Gizmo, gli ho chiesto di recuperarla e digitalizzarla. Ha riso come per dire «Tinni vulissa bbene! Biò è l’ultima cosa a cui penso, sinceramente». Scusa.

E scusa se ti ho dissuaso quando volevi infognarti pure tu nei giornali ma l’ho fatto per il tuo bene: fortunatamente per te ti sei salvato, almeno da questo — magra consolazione. «Niente, dopo che mi hanno mandato a casa, ho scritto per un anno, quando 10 mesi dopo ho chiesto come mai non mi avessero mai pagato, mi hanno risposto che non avevo più il contratto e come facevano a sapere che io scrivessi ancora… dunque, dopo altri sgarretti successivi, ho deciso di fotocopiare gran parte degli articoli, presso la biblioteca di stato e a prezzi non modici, e di farmeli pagare come da tariffario dell’ordine, visto che la mia autonomia contrattuale non si era manifestata a limitare tale diritto e non per mia colpa…». Questa è la tua versione su come funziona la nostra professione in Calabria, la conservo come memorandum per il Libro Nero sull’informazione calabrese che scriverò quando andrò in pensione quindi non scriverò mai perché difficilmente avrò una pensione. Insomma, avevo ragione a dissuaderti. Tanto, hai visto che le tue soddisfazioni le hai avute lo stesso?

La scrittura di Stefano era freschissima e leggera, una specie di flusso mutuato dal parlato con riferimenti al nostro pantheon generazionale di cinema tv cartoni animati politica fumetti tutto, long form spesso in prima persona prima che diventasse una moda da clickbait, lui era davvero ai livelli delle migliori penne di Vice e non lo dico perché non c’è più (né sono il solo a pensarlo), infarciva gli articoli di citazioni pop del cantautorato italiano più o meno di qualità anni 80-90 e una solida conoscenza della musica (indie, underground? No, semplicemente musica, tutta la musica, ché «la musica non è mai un incubo, a papà»): andate a rileggervi le sue cose su questa bellissima creatura che è 2bePOP, un manifesto già nel nome, ancora oggi una spanna avanti rispetto a molti altri esperimenti ben più pretenziosi ma scadenti.

Nelle foto che molti hanno condiviso in questi tre mesi lo vedete in tutte le versioni, da iena da matrimonio con cravatta rossa abbinata alla montatura degli occhiali da sole a hipster col camicione a quadri rosso-neri, sempre stiloso perché era una cosa che aveva dentro. Io ti vedo qua vicino con le gammuzze che finivano nei piedi a V e la bottiglia in mano (prima birre, poi acqua), il viso appuntito e il barbone da guru coltivato sul baffetto da narcos. E cose che ci mancheranno in questa prima estate senza di te, strano anfibio urbano-marittimo che hai portato la tua internazionalità paolana anche nei soggiorni più o meno lunghi in giro per le città e i festival, i baretti di Ostiense e il resto della Calabria.

Scusami ma il coccodrillo te lo dovevo, Stefanuzzo. «(…) cose difficili da respirare, cose difficili da dirti adesso qui, cose per le quali ringraziare una vecchia canzone e nomi di persone, cose, animali di merda e città, questo è il momento in cui finisce il gioco, questo è il momento…» (cit. Stefano Cuzzocrea conosciuto 20 anni addietro come Spral Phenomenal. E ci siamo voluti bene).

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