Taylor McFerrin: don’t worry, make love
di 2bePOP - 18 dicembre 2014
Tutti monelli? Ci vuole attitudine anche ad essere un bravo ragazzo. Come riconoscerne uno? Un esempio più contemporaneo è l’autore di Early Riser, uno degli album più dolci e saporosi dell’anno. Si chiama Taylor McFerrin e se il suo cognome vi ricorda quello di qualcun altro non preoccupatevi: c’è da essere felici. Ebbene sì: è proprio il figlio di quel Bobby lì. “A volte è difficile, se cerco di confrontarmi con mio padre, ma io sono un musicista ormai da oltre 15 anni e sento di aver trovato il mio stile e il mio suono. Così ora mi sento a mio agio come artista. Mio papà è stato davvero una grande ispirazione per me, musicalmente e nella mia vita. Penso, però, che ora il mio ruolo sia di raccontare alla gente quello che sono, a prescindere, cosa ho fatto e ciò che loro non conoscono”.
La razionalità e la riconoscenza non sono cose da tutti, o no? Tra l’altro a queste sue belle doti si aggiunge l’onestà. Difatti, se ci si permette di accostarlo a Toro Y Moi non si arrabbia affatto. “Mi piace molto Toro Y Moi. Sento come un collegamento mentale con molti dei produttori giovani e attuali, siamo cresciuti ascoltando la stessa musica, ma ci esprimiamo attraverso i nostri stili musicali personali, quindi comunque alimentiamo anche delle differenze, nonostante il ceppo comune dal quale veniamo fuori. È difficile per me stabilire o tracciare quale sia il futuro della musica, penso però che tra qualche anno bisognerà comprenderlo meglio tutti insieme ed essere in grado di notare quali siano stati i momenti cruciali del cambiamento oggi ancora in atto. Ritengo, comunque, che Brainfeeder punti su un sacco di artisti che stanno aiutando a spingere più in là la musica in questo momento storico”.
Lucido. E oltretutto votato a fare gioco di squadra. Altro pregio da perla rara in questo mondo di individualisti. Eppure il suo show lo porta avanti da solo. Un tour italiano tutt’altro che esoso. Voglia di viaggiare. Riducendo al massimo le pretese e la line up. One man band.. Qualche macchina, un vecchio fender rhodes, una voce splendida e il beat-box che porta il soul a mischiarsi con l’hip hop più basilare. “Sono ben 14 anni che mi muovo tra palchi e sale prove, quindi cerco di portare tutto quello che so anche nelle mie performance dal vivo e trovare un buon equilibrio tra l’improvvisazione e il resto, di interagire con il pubblico in modo da rendere unica ogni esibizione. Lo spettacolo è ancora in evoluzione. Porterò il mio batterista, Marcus Gilmore, con me il prossimo anno per molti dei miei show e aggiungerà un ulteriore livello di profondità all’esperienza; so che la gente saprà davvero goderne. Lui è incredibile”.
Il jazz del 2000 è l’anima di tutta questa faccenda. Visceralità che spinge i tasti e guida la penna a scrivere canzoni che stringono il cuore e fanno pulsare l’amore nelle arterie come se fosse magma pronto ad eruttare. “Il brano intitolato Floraisa è per la mia dolce metà che sto pe sposare, celebreremo le nostre nozze a maggio. Il resto dell’album è una miscela di tutti i generi di musica che ho amato fin da bambino. Io preferisco concentrarmi su più stili, permettetemi di sbizzarrirmi con sound ed esperienze differenti, ed è una scelta che è venuta fuori in maniera molto naturale. Penso comunque che soul e hip hop siano la latitudine la longitudine in base alle quali traccio la mia idea di suono”.
In questo suo primo disco, che è un gioiellino, ha fatto quasi tutto da solo. Però ci sono un po’ di amici a dargli man forte. Ai brani collaborano il pianista Blue Note Robert Glasper e Thundercat (entrambi ospiti sulla sinuosa Already There); e nientemeno che papà Bobby e il pianista brasiliano Cesar Camargo Mariano sulle note più classiche di Invisible/Visible. Senza contare la mielosa voce di Nai Palm in Florasia e quelle di Emily King e Christina Ryat. Il risultato è meraviglioso. Una delle uscite migliori del 2014. “Non ho una prospettiva esterna sul mio album. So solo che è la musica più onesta che io abbia fatto negli ultimi anni. Sentivo che era importante per me presentare canzoni che avessero un significato molto personale. Non posso controllare come altre persone possano interpretarle, ma è stato un piacere avvertire che in molti si siano sentiti sintonia con tutto quello che io ho provato e tradotto in musica. Ho suonato in diverse band di New York fin dal 2000, quindi sento di avere già una lunga carriera alle spalle, anche se le persone stanno ascoltando solo ora un album davvero mio. È come se avessi inciso e fatto maturare tutti questi anni di esperienza in un unico progetto”.
Ma, come nei migliori romanzi d’amore, perché di romanticismo da bravi ragazzi si tratta, la storia continua. “Aspettatevi nuovi bani da me molto presto. Ho un sacco di tracce che finirò appena tornerò a casa dal tour e per le quali sono molto entusiasta. La cosa più importante, che ho imparato nei miei concerti di questi ultimi mesi è che dovrei fidarmi di più del mio istinto musicale e far sgorgare fuori le cose che suonano meglio per me stesso, assecondare il mio bisogno di espressione in maniera ancora più intima insomma”. E se non vissero tutti felici e contenti che si fottano allora.
Stefano Cuzzocrea