T come Tempo
di 2bePOP - 3 aprile 2014
Mi trascino da più di un mese per scrivere sul Tempo, con la stesso slancio di una vittima sopravvissuta a stento all’agguato pistolero in una strada di campagna sul far della sera.
Accanto a me“L’insostenibile leggerezza dell’essere” di Kundera: mi ha comprato, lui, il libro, al prezzo di cinque euro, scegliendomi dallla bancarella posta di lato al tavolino del bar da cui sorbivo avidamente un succo di mirtillo, nella piazza del Municipio di Ferrara, con la mamma che mi è venuta a trovare, nei dieci minuti che precedono il gruppo antiviolenza che seguo ogni lunedì.
Le coincidenze non esistono, e i libri sono vivi.
Sì, quei pezzi di carta messi assieme da pezzi di carne, assemblati a loro volta non si sa da chi, sono divini e indemoniati, celestiali o apocalittici, entusiasmanti più del sole di primavera che soppianta la bruma della notte o malinconici come lo spleen del barbone riflettente come uno specchio infranto l’immagine del manager passante, rassicurato dal proprio profumo Yves Saint Laurent che, per difendersi dal lezzo d’orina del questuante, si accoppia soavementemalla fragranza proveniente dal forno che include la scena a mo’ di cornice.
Loro ti trascinano, dilaniano, spaventano e meravigliano, ti stancano, si espongono e ti impongono; associano, correlano e poi scappano dopo aver lanciato il sasso. Abbaiano e abbagliano, possiedono e svuotano, ti illudono, ti rafforzano, ti esaltano e risucchiano, irridono e consolano, esplodono e poi si adagiano come polvere di stelle o streghe d’amore o droghe di una decade che mai più tornerà, avvignhiandoti mollemente tra le spire delle loro malìe, sussurandoti, mute, che l’oblio è la verità, e la bugia si annida nella schiuma blues che dipinge senza volerlo i volteggi inafferrabili della tua esistenza.
Come in un sogno, una sera di inizio primavera, Valerio suona Debussy e dopo legge Buzzati, posseduto dalle sue stesse dita che interrogano il piano perfette; sfoglio l’album dei ricordi deformi con gli occhi chiusi e il cuore aperto, Matteo poggia il contrabbasso e si sdraia come un coniglio sotto la luna, mentre le sirene cantano davvero e hanno nomi di Ginevra e Natalia.
Roberto Bolano e i due tomi 2666, Ernesto Sabato dal Tunnel, Roberto Arlt col Giocattolo Rabbioso, il Pieno Giorno di Willie Sutton immaginato da Moheringer, Sgalambro e il suo rifiuto della società, pare si siano messi d’accordo per fare fermentare la pozione magica dei miei pensieri che viaggiano sui binari neuronali e si schiantano sul foglio.
Eccomi qui, vittima abbastanza annunciata di una concezione del Tempo lineare, che ci tortura con la cristianissima Triade peccato-redenzione-salvezza; tutti sotto le sue tre punte:
credenti, miscredenti, atei, maschi, femmine e cantanti, a prendere boccate d’ossigeno asfissiante.
E Federico, che sicuramente pensava a me quando scriveva di “chi non sa sedersi sulla soglia dell’attimo, dimenticando tutto il passato, chi non sa stare su un punto senza vertigini e paura, come una dea della vittoria, non saprà mai cos’è la felicità”. Meglio i cani che gli umani, direi se non amassi le bestie senza essere animalista, non odiassi gli uomini pur ritenendomi umanista: superomista o transumanista?
Mi chiedo se sia preferibile la zavorra dell’Uguale che torna, invisibile come l’assassino sul luogo del delitto o il lieve palloncino all’elio dell’Esistenza Ombra che svanisce senz’ombra, incapace di lasciare nulla che non sia un taglio nel cuore del bambino che lo ha liberato; ripercorro frammenti di vita e faccio i conti con il Tempo.
Un Tempo che è croce cui inchiodarsi, ma non per prendere il sole, come ci suggerisce la sua lettera iniziale; oppure, è possibilità, bivio, linea retta che si rinnova continuamente, si biforca di volta in volta senza smettere di assomigliarsi, lucertola semiotica che fugge e rigenera, generatrice di un sogno in cui è tutto reale, che serve a dimenticare che ogni giorno in più che viviamo è al contempo un giorno in meno che ci resta da campare.
Quindi T come Tempo ma anche come Tunnel.
Tunnel che all’inizio mi vedeva scatttante e deciso come la mia cresta post punk, Ray Ban Way Farer, magliettina con Malcolm X e ai piedi Nike Air Agassi viola e arancio leggere, in una tasca Bakunin e nell’altra Mr. Nice, certezze rivoluzionarie e spavalderia spadaccina in luogo di dubbi esistenziali e goffaggine intellettualoide. Vent’anni dopo mi sveglio dal coma, vedo una luce in fondo alla galleria: all’uscita mi ritrovo vestito con camicie button down a quadretti, maglioni in cashmire e rennino blu, jeans stretti su scarpe con mascherina Oxford, Schott abbottonato e faccia tagliata, costretto dal mio Grillo a distinguermi dalla vacuità multicolore dei bimbiminchia Mtv, a recitare la parte del piccolo paninaro di 35 anni post-litteram, con ideali egualitari, letture antisocietarie e caleidoscopiche, soffocato da rigurgiti di sogni in cui annaspano bisogni da yuppie, e tutto questo al prezzo di uno: un affare imperdibile, inacquistabile con cartamoneta, bancomat, sentenze o lusinghe.
Sarà che col Tempo ho realizzato che l’unico comunismo praticabile è quello dei luoghi, e che per abitare il presente bisogna avere costruito un passato e immaginato un futuro, sarà che preferisco sputare sulle vostre tombe che non leccare gli zerbini delle vostre case senz’anima. Sarà perché più passa il Tempo- ma è il Tempo che passa o siamo noi a passare nel Tempo? come diceva Totò- e più mi va di giocare con le parole che non con gli uomini; o forse perché dopo un Tempo di cinque mesi ho scoperto che nel capannone dove lavoravo gratuitmente, pur di non appassire in 20 mq, la concentrazione di cromo esavalente, altamente cancerogeno, era di 40 volte superiore alla media, e quindi l’ultimo mese sono tornato alla mia magione di parquet, libri, entusiasmi, depressioni e CalcioCatania prossimo alla serie B, in cui la T di Tempo si traveste in T di Tragedia.
Magari è perché ancora riesco a concentrarmi solo sui prossimi sei mesi, che mi condurranno alla laurea, ai prossimi 30 giorni che mi separano dalla libertà, alle 18 di quest’oggi quando andrò a sollevare pesi fisici per non pensare ai gravi (problemi) mentali che mi oberano, o alle 18 di sabato, quando sarò con mia sorella l’architetto a bere nel pub ferrarese che mi è più consono, per nome, locazione, entourage e popolazione: il Clandestino, dietro casa, dove Luca mi dà del gay per dirmi maschiaccio, Gianni fa il vago con il suo aplomb da uomo d’altri tempi e Fede e Alice che appena mi scorgono impugnano calice e Cannonau, come a difendere la tana di legno che mi impedisce di annegare nel mare delle rimembranze. Solco i flutti dell’alcool che ingurgito, sperando di esibire un invidiabile savoir-faire da Josey Wales: eppure anche lì non riesco quasi mai a concentrarmi sul presente, che fatico a definire e concepire se non come parente prossimo e fetente.
Allora, mi dico che potrei smettere di essere tonTo e iniziare a darmi un tono, io che peno perché mi penTo, che più non pesTo perché mi son tolto il peso, che sono sano senza esser sanTo, che sento a sTento un corTo coro, moro e mai morTo, che mi dice che sono un toro anche se spesso ho torTo, e che sono splendido quando volo senza volTo, io che svelo svelTo ciò che è vanTo vano, che ardo Tardo quando remo e Tremo, leso più che lesTo, nel mio caso poco casTo, che non coltivo l’orTo e non nuoto nell’oro, in quest’eterna afa che diventa afTa, orrida e Torrida come un’asta che tasTa la cosTa e mai tocca la cosa, anche se molto osTa e poco osa, io, nemico di chi sempre posa e spesso posTa, io che riposo del sonno mal riposTo di chi pone il ponTe tra questi mesTi mesi.
In fin dei conti è solo una questione di T.
Gianluca Vittorio