S come sogni e soprannomi

di 2bePOP - 13 gennaio 2014

gianluca vittorio

Non so se non dormo perchè mi rode il culo o mi rode il culo perchè non dormo. Alle 4,30 a.m sono sveglio già da un’ora, fra tre devo essere al lavoro e non ho nemmeno fatto incubi stanotte. Ma mi sono addormentato troppo presto. Forse mi rode il culo perchè non ho visto tutta la puntata settimanale di Chi l’ha visto, trasmissione che adoro e adorerò, soprattuto finchè non mi rivedrò fra gli scomparsi.

Ho riletto parte del Complesso di Telemaco di Recalcati e qualche pagina di Solea di Izzo, triste e genialmente mediterraneo come solo lui ha saputo essere, e sto terminando per la prima volta un breve pamphlet sulla vita di Francisco de Zurbaràn, pittore che mi ha rapito, assolvendo al compito che tocca ad ogni esempio di rappresentazione della bellezza, come mi ricorda Somerset Maugham dalla quarta di copertina. La giornata di ieri, prima dell’insopportabile e amata compagnia della Sciarelli su Rai Tre, l’ho iniziata e conclusa, ubriaco e ambizioso come l’autore, pur senza aver bevuto un sorso, con la fantastica vita di J.R Moeringer, ghostwriter di Agassi, Pulitzer per il giornalismo nel 2000 e scrittore dell’alcolico, splendente e struggente, Il Bar delle Speranze.

Nelle cinque ore di sonno, stanotte, dicevo, niente inseguimenti, armi nascoste, accoltellamenti subiti, poliziotti assedianti, dirupi sconnessi da affrontare in bici senza freni o in macchine che non rispondono ai comandi, fortini della droga difesi da pusher col kalashnikov, fughe impossibili praticate lanciandomi di balcone in balcone, botte che non riesco mai a dare per contrappasso onirico, imprigionato in una bolla di acqua torbida e stagnante che fuoriesce dalla fontana della mia vita balorda; no, stanotte ero appeso come una scimmia semireclusa all’esterno di un cortile, appeso all’inferriata di un’ipotetica scuola, al di là della quale c’era Lilia,la mia maestra della primina alla Linus, che mi riconosceva nonostante non mi vedesse da decenni e se ne chiedeva il perché.

Io le rispondevo che ovviamente dipendeva dalla luce dei miei occhi bambini, ma lei diceva no, non credo; al che io le allungavo cinquanta euro, e lei me ne regalava venti. Poi sopraggiungeva mia madre che me ne dava trenta e come al solito ero riuscito ad andare dieci sopra, cosa che mi faceva andar via sicuro al fianco di un mio cugino di terzo grado sordomuto e romano che invece non vedo da vent’anni.

Noioso, certo, nulla a che vedere con me che riempo di pacche sulla spalla Adriano Celentano, tra le sue risate compiaciute, una fratellanza dorata, rassicurandolo sul fatto che “Si è spento il sole” è un pezzo che spacca, te lo giuro, puoi credermi fratello, e conducendolo da mia nonna Maya a Tortorici, con la quale improvvisiamo un balletto a tre  come vecchi compagni di bevute, che diventa a quattro quando sopraggiunge mio nonno Tano dall’aldilà, sempre elegantissimo con mocassino bicolore e papillon, seppure in versione zombie amico. Fine della performance, io guardo il Molleggiato e gli dico: “ Cazzo, bravo sei bravo, però ti vesti una merda: andiamo a casa mia a Catania, che ti presto una giacca Versace.”

I sogni o gli incubi ti cambiano la giornata, e quindi il problema che ti creano è relativo, tutto sommato.

I soprannomi invece, se non ci stai attento, manco fossero figli prediletti, attentano a tutta la tua vita, o per lo meno, alla fetta di esistenza alla quale stanno aggrappati come candeline sulla torta, finchè non li spegni e li riponi nel cassetto di ciò che è stato e non sarà mai più, seppur senza mai buttarli nell’immondizia.

Il primo nickname, ingiuria o peccu che dir si voglia, di cui ho memoria certa, me lo affibbiarono a Tortorici, a dieci anni, quando in teoria ero ancora un bravo bambino, ma già davo segni di un nervosismo compulsivo che portava me a urlare a squarciagola nelle situazioni più impensabili e gli astanti sconvolti a chiamarmi L’Esaurito.

Il secondo me lo diede Franco, il simpaticissimo padre della mia prima fidanzatina romana, che per la mia indubbia e conclamata voracità, mi chiamava Er Cloaca, o Er Bolscevico per le mie spille dell’Armata Rossa appuntate sulla manica sinistra del mio bomber nero, visto che la destra era occupata dalla toppa del San Gregorio, la seconda squadra di rugby in cui militai, dai 14 ai 17 anni. Giocavamo in C1, io ero troppo piccolo per la squadra maggiore ma la giovanile non c’era e allora giocavo nel campionato riserve, che era come la C2, ricoprendo tutti i ruoli dei trequarti, affrontando bestioni grossi il doppio o anche il triplo di me, che ai tempi ero assai gracile.

Le cose che più mi onorarono in quegli anni furono l’aver affrontato Lo Cicero, che mi soccorse alacremente dopo uno scontro di gioco in cui mi ficcai le dita negli occhi da solo; aver fatto meta in mezzo ai pali ai fascisti della Fiamma, dopo una finta di passaggio a destra e un cambio di passo, sotto placcaggio; last but not least, l’essere chiamato Gianni Luca, inizialmente dall’allenatore Argentino Alfredo, incapace di dire Gianluca, e poi da Gianni Johnny e da Gianni Puccio, i due fondatori dei Lautari, seguiti a ruota dal resto della squadra, in cui tutti erano magicamente diventati Gianni Giacomo e Gianni Marco, Gianni Giovanni e Gianni Massimo.

Fuori dal campo, cioè al Centro Sociale Auro, ero il Vichingo per la mia proverbiale delicatezza nei modi o il Manager per le  spiccate attitudini nell’ambito della green economy, se ero a Catania. Quando andavo a Roma diventavo Rigatone, dopo che uno stornello romano che non avevo particolarmente gradito in un ristorante tipico, da Giggetto se non ricordo male, vide che nonostante trangugiassi avidamente i rigatoni alla pajata come se fossi tornato appena dalla campagna di Russia  e non fossi di ottimo umore,  mi chiese: “Che te sta’ a rode er culo a Rigato’?” . Poi si girò verso la sua banda di menestrelli e disse sornione: “Er Siciliano se sente fori porta, porello, famolo senti’ a casa…” e attaccò: “E benvenutoooooo a Rigatoooooone…”.

A Roma come sappiamo divenni anche il Puggile per la boxe praticata in palestra e in giro e G Looka per il Mondo Reggae, da quando dovetti scrivere il mio nome in modo da farlo leggere correttamente ad Horace Andy per il primo special che tagliammo per Gramigna.

A  Milano fui Gian per chi mi voleva buono, come Alejandro e Benni, e Gorilla per chi mi rispettava perchè mi temeva, cioè il resto della città; quando mi arrestarono Easy Killah fece le spillette Free Gorilla con la mia effigie quasi aureolata su sfondo rossazzurro, che Dvd indossava alle serate in cui Bushkillah suonava senza di me in Pergola, tra lanciafiamme branditi dai gambiani  e fanciulle che facevano  daggering avvolte da sguardi sbavanti, volute di fumo e treccine traccianti.

Per i più però, sotto la Madonnina come a St. Martin, ero, sono e sarò semplicemente G: polisemantico, conciso, allusivo; evocativo insomma, come deve essere una parola che si rispetti.

Tornato a Catania fui Kuken per il negozio che aprii e di cui parlerò alla lettera K, in onore del nomignolo con cui mi chiamava mio padre quand’ero piccolo, imitando la mia pronuncia infantile di Luca, Kuka, e dandogli un finale Sturmtruppen. Kuchen vuol dire dolcetto in tedesco e lo sapevo, per esigenze grafico-estetiche lo tramutai tranquillo in Kuken, finchè dei turisti norvegesi miei clienti mi dissero che nella loro lingua voleva dire né più né meno che Minchia. Fu utile l’incontro, superato lo shock: ogni volta che vedevo due biondi ridere davanti alla mia insegna, capivo subito da dove venivano. Il mio livello di sensibilità geo-antropologica si era involontariamente innalzato.

Per gli amici del mercato di Catania, da Fera o Luni, e grazie all’immaginazione di Renzo, mio storico avversario sul ring e amico nella vita, con cui abbiamo ancora una rivincita in sospeso, incarno il Grugen, creatura mitologica nata dalla  fonetica storpiatura di strada di Kurgan, l’avversario storico di Highlander Lambert, l’ultimo immortale.

Qui a Ferrara, al mio nuovo lavoro, Luciano e Giuseppe,  all’inizio, un mese fa, mi chiamavano Luca e la cosa mi rassicurava, perchè di solito lo fa chi mi vuole bene, mia madre in primis. Da ieri ho capito che per loro, cristiani carismatici coi quali recito la preghierina prima di iniziare a stampare alle nove di mattina e di mangiare alle tredici, sono anche Lucignolo, il bambino trasformato in somaro per i troppi balocchi. Sempre meglio di Lucifero, nonostante l’identità radicale dell’etimo.

A me adesso piace chiamarmi Gutenberg, visto che per otto ore al giorno e trecento euro al mese di assegni sociali, maneggio carta e stampo e pinzetto e taglio inviti, locandine, volantini, calendari, brochure e biglietti da visita, ringraziando il Signor Karma che stavolta è stato sicuramente clemente e, speriamo, augurale.

Con me, che in questo momento ho per migliori amici creature di carta, per me, che finora sono sopravvissuto per raccontare, ma che già da un po’ racconto per sopravvivere.

Gianluca Vittorio

  • Darius

    Grande!!!…Ce l’ hai “Fatta”!!!…O meglio diciamo che ce la stai…”facendola”???

  • Darius Latini

    Grande!!!…Ce l’ hai “Fatta”!!!…O meglio diciamo che ce la stai…”facendola”???

  • g

    Facendola ancora:;-)
    In effetti anche mi volevi buono, chiamandomi Gian…

  • g

    anche tu mi volevi buono intendevo