Outdoor: nuove architetture un’arte urbana da ribattezzare
di 2bePOP - 20 novembre 2014
Ce l’ha fatta. L’arte urbana ha ormai raggiunto uno status adulto ed entra dalla porta principale nei musei istituzionali anche in Italia. Parte dal MAXXI infatti la quinta edizione di Outodoor, festival dedicato all’aerosol art, in scena a Roma da ben 5 autunni consecutivi, grazie all’ingegno e alla perseveranza di Nu Factory.
La conferenza stampa, allestita appunto in una delle sale del prestigioso museo del ventunesimo secolo, stupisce per la voglia di superare la definizione di street art e porsi interrogativi più interessanti. Il primo è relativo al fraintendimento che vuole legare il fenomeno alla riqualificazione urbana: gli interlocutori invitati sono tutti concordi nel non confondere il ruolo dell’arte con quello che da sempre spetta all’architettura. Ciò non toglie che nel suo itinerario tra Basquiat a Banksy questo, non più nuovissimo, modello espressivo vive una sorta di crisi di personalità caratteristica della terza età. Il primo indizio lo si può rintracciare nel timore reverenziale che i relatori, all’interno del MAXXI, mostrano a prima vista: hanno scelto tutti di indossare la camicia, e non una fantasiosa camicia hipster bensì quella classica, messa su come se fosse un badge istituzionale da mostrare all’ingresso di quello che è una sorta di palazzo del potere. E nell’arte conta sia la forma che la sostanza. Che si sentano tutti troppo subalterni nei palazzi del potere culturale riconosciuto?
Eppure ci si dimentica in un istante di questa omologazione ascoltando gli interventi di quelli che sono attori diversissimi di una realtà, quella dell’arte urbana romana, radicata fino al punto da essere interpretata in maniera squisitamente differente, consentendone un’evoluzione costante e meditata. L’edizione di quest’anno del festival intitolato Outdoor ne è appunto l’esempio emblematico. La rassegna supera la definizione di street art e si chiude dentro un enorme fabbricato dismesso: l’ex dogana su via Scalo San Lorenzo. Ben 5000 metri quadrati che ospitano artisti provenienti da 7 nazioni, grazie al sostegno di 5 ambasciate e altrettanti Istituti di cultura stranieri (Norvegia, Grecia, Sudafrica, Francia, Giapppone), oltre che dell’Amministrazione romana. Il concetto di riqualificazione urbana, che si era legato spontaneamente ai muri colorati nei quartieri Ostiense e Garbatella, teatro delle edizioni precedenti, lascia l’esterno e si chiude in stanze che rappresentano uno spazio fisico e mentale adatto alla riflessione, separando i ruoli di urbanistica e arte urbana.
Le porte di questo museo temporaneo si sono aperte il 25 ottobre e lasceranno la Dogana solo il 22 novembre, con una sinergia esemplare: quella con il festival di musica elettronica Spring Attitudee la sua prima anticipazione, colma di nomoni del suono contemporaneo. Del resto sono già tante le performance musicali , le tavole rotonde e le proiezioni che hanno arricchito il cartellone di Outdoor fino ad oggi. L’imperativo è entrare in sintonia con le stanze e le istanze della dogana. Dentro una nutrita schiera di talenti: dal gesto ripetuto e marcato di Jbrock alla colorata ironia di Laurina Paperina e dell’americano Buff Montser, dalla parola e la geometria dei greci Blaqk alla delicata ricerca estetica della sudafricana Faith 47 in netto contrasto con la sensualità pop della giapponese Lady Aiko, e ancora il combo norvegese Dot dot dot, la perdita dei normali riferimenti spaziali di Thomas Canto, l’incontro e confronto di Brus, Ike e Hoek, le diverse ricerche stilistiche ed estetiche dei giovani Tnec e Jack fox per concludere con l’invasione dei characters di Galo e l’ istallazione materica di Davide Dormino.
Il tutto resterà comunque visibile anche dopo lo sdoganamento di fine novembre, fondendo il classico col contemporaneo: il primo lustro di Outdoor verrà immortalato in un primo catalogo, intitolato “Roma wasn’t built in a day” e realizzato da Drago, ma, grazie al partneriato tra Google Cultural Institut e NUfactory il progetto Dogana resterà visibile al pubblico attraverso dei tour virtuali sulla piattaforma on line Street Art Rome.
Incuriositi da una conferenza stampa che ha assunto i toni di una tavola rotonda, non potevamo esimerci dall’indagare. Abbiamo trovato delle sorprese, come un’opera realizzata dall’artista losangelino Buff Mosnster, inizialmente non previsto in cartellone e invitato lì da Galo, gallerista torinese oltre che artista, che ha dipinto un intero tunnel, al termine del quale si accede appunto alla sala dipinta dal suo ospite, come a rappresentare una deformazione professionale. Tutto assume più significati insomma. Tant’è che un intero padiglione dedicato al writing romano che stabilisce un legame con le forme arcaiche di arti urbane e tenta di risolvere, con un dialogo ulteriore, le diatribe tra i graffitari e il fenomeno della street art commerciabile, nel solco di quella che è la sfida simbolo di questo attrito annoso, ovvero il diverbio semantico combattuto a colpi di spray tra Robo e Bansky. Nulla o quasi è affidato al puro caso.
Gran parte dei meriti sono della curatrice di Aoutdoor, Antonella Di Lullo. Lei, già lo scorso anno, ci aveva catturato, con l’affermazione “ho più di trent’anni e quindi non sono un giovane talento”, anticipando di qualche mese tutte le implicazioni anagrafiche e sociologiche che l’ascesa al Governo di Renzi ha tentato di risolvere, riducendo i fraintendimenti tra cosa siano un ragazzo e un adulto in un’Italia che conserva dubbi in merito. Dunque moving forward, il tema di quest’anno, le si addice molto come concetto. Del resto anche oggi ci ha dato qualche spunto parecchio interessante per comprendere cosa stia cambiando nel dialogo tra uomo e cultura e tra i posti che questi si trovano, spontaneamente o meno, a vivere, condividere e coabitare: “Bisogna fare una riflessione sul luogo: questo, la Dogana, ha una sua storia e dunque ogni artista si è dovuto relazionare con lo spazio anche in maniera tridimensionale, perché i 5000 metri dell’allestimento diventano non contenitore ma un contenuto, sia per una questione di storia propria che per il contesto urbano, a partire dal quartiere dove è costruito; in più allestire Otudoor in un capannone, abbandonando la strada e i format delle scorse edizioni, presuppone la scelta dello spettatore di entrare e non di trovarsi di fronte a qualcosa che è davanti ai suoi occhi indipendentemente dalla propria volontà; l’arte non ha il compito di riqualificare ma di colpire, che poi ci riesca o meno è una questione che attiene a chi decide di affrontarla”.
Stefano Cuzzocrea