L’hip hop italiano non è un Danno ma lui c’è ancora

di 2bePOP - 5 febbraio 2013

danno

Prima o poi se ne riparlerà. Oggi, per via di una corsa verso la modernità a tutti i costi, è ancora presto. I 90 non sono stati un decennio inutile, anzi. Il rischio, però, è che invece che comprenderli li si scimmiotterà, a brevissimo, per il solito rispolvero ciclico del modernariato. Peccato.

Ovviamente c’è chi dissente ed eccoci qui, infatti, a parlare con Danno, il rapper più futuribile di quel periodo. Tra l’altro non si è affatto arrugginito. Al contrario. Basta pensare al suo alter-ego Artificial Kid. “Artificial Kid è un disco piccolo, poco conosciuto, che si discosta molto dal rap classico, ha un sound apocalittico e i testi si ispirano alla letteratura e alla cinematografia cyberpunk. Volevo fare qualcosa di diverso, di più letterato. Le rime di quel disco riflettono un periodo in cui non stavo messo troppo bene. Ho difficoltà a parlare in modo troppo aperto dei cazzi miei, per cui ho usato la chiave del cyberpunk per sentirmi libero di tirare fuori un po’ di demoni. E, come ha detto qualcuno, volevamo usare lo spettro del futuro per raccontare il dramma del presente”.

E a proposito di futuro, a quanto dice lui, stanno tornando anche i suoi Colle Del Fomento. “Stiamo lavorando al nuovo album del Colle proprio in questi giorni, a breve dovrebbe uscire un singolo come anticipazione del nostro nuovo lavoro…siamo un po’ così, molto romani nel nostro affrontare lo scorrere del tempo e ci piace far uscire un album solo quando ne siamo soddisfatti al cento per cento, cosa difficile in quanto parecchio critici soprattutto nei confronti di noi stessi”.

Come da copione, non c’è nessuna major dietro. “L’autoproduzione è una buona strada per aver il controllo totale sulla nostra musica e per mantenere quella libertà, che per noi  è vitale. Una major può servire per arrivare a un pubblico più vasto ma spesso ti incastra in dei meccanismi promozionali che possono anche nuocere all’artista. Non credo che una major ci offrirà mai qualcosa, siamo un gruppo con un’identità e una storia molto forte, non accettiamo facilmente compromessi e non ci facciamo dire da nessuno come scrivere i ritornelli o le rime, ci piace fare di testa nostra e invece le major ora vogliono il ragazzino da vestire, pettinare e costruire in ogni minimo dettaglio, secondo logiche di marketing a me spesso incomprensibili”.

Giusta o sbagliata che sia, questa analisi è condivisibile e poggia su diverse basi. La prima è costituita dal valore culturale, che spesso è lasciato in secondo piano dall’esibizionismo e dall’intrattenimento. “L’hip hop è un veicolo culturale enorme con un potenziale che ancora non è stato compreso. Potrebbe sostituire la politica ufficiale in alcune zone e forse già lo fa. I pischelli credono più ai cantanti e ai rapper che ai politici. Io per primo, sarò stupido ma che ti devo dire, ho sempre creduto di più ai registi, agli scrittori, ai musicisti che a tutti questi in giacca e cravatta che rivestono ruoli istituzionali e che hanno i bodyguard dietro. Ed è anche un po’ per questo che a volte mi incazzo quando sento certi testi, quando il tutto si riduce a parlare di coca, di troie, di discoteche, di macchine di lusso e di soldi; mi chiedo che cazzo state dicendo ai ragazzini? Che generazione state tirando su, con quali valori? Ecco, ora mi spareranno per aver usato la parola valori e diranno che sono un prete, a me che sono anticlericale come pochi, però sta cosa la voglio dire,: non basta la scusa del sto raccontando la realtà, perché tu che sei rapper in qualche modo la realtà la puoi influenzare con i tuoi testi, quindi hai un potere di arrivare alle menti di chi ascolta e di dirgli oh, guarda che qui sta per crollare  tutto”.

E intanto, talvolta, crolla tutto quel che sta alla base dell’individuo. Il perché è scandito dallo scorrere del tempo e dal mutare di alcune coordinate essenziali, come una sorta di coscienza collettiva o etica di gruppo capace di salvaguardare singoli percorsi come il suo. “Non ho problemi a dirti che spesso ho qualche difficoltà. L’hip hop è la mia vita, il rap mi gira in testa 24 ore su 24 ma a volte, se escludo gli amici che ho nell’ambiente (per fortuna tanti), mi sento spesso fuori luogo, come se non ci trovassi più qualcosa di veramente mio; fatico a trovare dei punti di riferimento e a volte mi spaventa un po’ il nichilismo che avverto nell’aria. Questa idea secondo la quale tutto va bene pur di fare soldi non mi appartiene, il valetudo non mi piace. Quando percepisco in alcuni testi venature berlusconiane, ecco, lì mi chiedo se sia ancora casa mia. Ma poi alla fine resta il fatto che ho la mia storia, il mio gruppo e ed è ancora un piacere salire sul palco e sentire il beat che parte”.

Il rap è nel suo dna e ha visto nascere e crescere il fenomeno in Italia, tant’è che in questo nuovo boom non ci trova nulla di inedito. “Posso essere sincero? È un bel momento per il rap italiano, bellissimo, ma non ci vedo nessuna novità. Gli Articolo 31, i Sottotono, Neffa, Frankie e altri già negli anni 90 erano in vetta alle classifiche e vendevano un sacco di dischi, ma proprio un sacco, e in un periodo in cui produrre un disco o un video costava molto di più e non era alla portata di tutti. Se chiedi ai diretti interessati forse ti diranno che coi dischi si guadagnava molto più prima, magari ora si guadagna con gli sponsor, non lo so, sto fuori da queste dinamiche. E per il freestyle, penso al Tecniche Perfette o al 2 Tha Beat, manifestazioni organizzate dal basso, da gente come Mastafive o da Wize, Trix e altri massicci, che sono state eventi riuscitissimi e seguiti in tutta Italia pur non avendo dietro le telecamere di Mtv; per cui si, è un bellissimo momento per il rap italiano ma non dimentichiamoci di chi in passato certe situazioni le ha tirate su con veramente pochissimi mezzi”.

 

Per fortuna, però, certe cose non cambiano mai, o meglio: cambiano solo in parte. Quindi c’è sempre qualcosa per la quale vale la pena non fare di tutta l’erba un fascio. “Lo dicevano al tempi i Beastie Boys, uno dei miei gruppi preferiti in assoluto. Il rap all’inizio è stata la musica più ribelle e rivoluzionaria degli ultimi decenni, ha dato voce a chi non aveva i mezzi per esprimersi ed è arrivata in tutto il mondo; ora è diventata il nuovo pop e forse è naturale che sia così. L’importante è che non scompaiano tutte quelle realtà underground che continuano a produrre del sano rap, quello un po’ grezzo e genuino che piace a noi” .

Dietro le vetrine dell’impero, dunque, resta salvo un altro mondo, una dimensione parallela alla quale accede solo lo sguardo di chi sa di come l’essenziale sia invisibile agli occhi. Danno sa guardare oltre. Gli si potrebbe dare la colpa, forse, di essere rimasto intrappolato in un’altra era; ma chi potrebbe puntargli il dito contro è uno che ha scordato il passato ed è prigioniero dei miraggi offerti da questa di era. E se i 90 saranno il modernariato trendy dei prossimi anni, magari, allora, non tutte le mode vengono per nuocere. O forse alcune non passano mai perché, scavando, non sono poi mica mode ma tutt’altro.

Stefano Cuzzocrea