Per tutti quelli ai quali un dj non ha salvato la vita, anzi…
di 2bePOP - 29 gennaio 2013
Eppure ancora capita. Sono passati decenni, tanti decenni, ma c’è sempre chi non l’ha capito. Ebbene, il dj è il punto cardine dell’evoluzione della musica. Sono conscio che chi legge questa frase sarà tentato di chiudere la pagina per due ragioni agli antipodi tra loro: 1) perché è una cosa basilare per comprendere la modernità, dunque già detta mille volte; 2) perché è un fermo sostenitore del fatto che un dj non sia un musicista.
Ed proprio l’attrito tra i due poli che necessita il discuterne, qui, ancora, adesso, per l’ennesima volta.
L’uomo nero nell’immagine è Don Letts. Nel 1975 era il commesso in un negozio di vestiti a Kings Road. Era anche un dj però. No, non skretchava, non era uno di quei virtuosi; cazzo era il 75. Era un dj di musica reggae e per questo fatto è riuscito ad imbastardire il punk a e fare un piccolo miracolo. E non ci si venga a dire che i Poul Simonon abitava in un quartiere londinese di neri e che quindi i Clash avrebbero imbastardito comunque il proprio sound, nossignore. L’unica cosa che avrebbero fatto, anzi che avevano fatto, era starsene in disparte mentre gli immigrati africani facevano una rivolta, salvo poi intitolare White Riot l’esperienza, facendo i guerriglieri a parole e i soldi a palate.
Chi non ha nulla da perdere fa le rivoluzioni. È successo anche a Rosarno, poco tempo fa, mentre sono in molti gli indigeni che subiscono la mafia e i pregiudizi più o meno passivamente. E Letts, nel suo piccolo, ha fatto proprio una rivoluzione.
Non c’entra tanto il fatto che i dischi punk non esistessero e quindi prima e dopo i concerti si mandassero vinili reggae, c’entra piuttosto che era di origini giamaicane. Lasciando stare che quando è andato nei luoghi natii della sua famiglia, per accompagnare Johnny Rotten a fare scouting di band locali per conto di una major, i parenti lo hanno guardato come un marziano, perché era diverso: lui comunque aveva già assorbito l’elemento di quella cultura che gli serviva per affilare le armi e lottare contro i pregiudizi: era un dj.
L’hip hop affonda le proprie radici in Giamaica proprio per questo: lì i dj sono sempre stati star. Ma non solo per le dance hall e la voglia di divertirsi: il dj era il loro mass media preferito, il dj era cultura. Avrebbe mai potuto cambiare la musica europea un ragazzetto ventenne armato solo di qualche disco? Ebbene Don lo ha fatto: ha trasformato la pretesa rock’n’roll del punk in una spugna ibridata di bassi gonfi e dub, fino al punto da aprire la strada alla new wave. O forse è solo un’impressione che i Pil abbiano attinto parecchio anche loro da là?
Eppure tutti sti estimatori di rock ruvido continuano a negare che il dj abbia la valenza di un musicista. Mettiamola così: Paul Mc.Cartney ha dichiarato di aver mollato i Beatles perché così avrebbe potuto suonare di tutto, senza doversi ancorare alle capacità tecniche della sua band; poteva ricorrere a turnisti diversi per ogni idea nuova. Cazzo, il dj può suonare, ops, pardon, può far suonare ai giradischi, se vogliamo disumanizzarlo, qualsiasi cosa, pure quelle cose che i virtuosi turnisti di Paul non sano fare.
Poi sono venuti anche i mash-up, i remix e prima ancora l’hip hop, che grazie alla stessa urgenza che aveva traghettato gli strimpellatori sui palchi a suon di punk e garage rock, ha trasformato la parola in musica, semplicemente saturando lo scat del jazz in poesia urbana, perpetuando i canoni del blues oltre uno spazio temporale che qualcuno, prima o poi, avrebbe dovuto varcare.
Senza contare che il cutting e il campionamento sono stati la matrice che ha portato prima la musica a cambiare e poi una serie di eroi da cameretta a cambiare le sorti del suono moderno e delle classifiche, Cosa c’è di più do-it-yourself di un ragazzino che compone hit stando in casa al pc? Di certo non la modernità dei Rolling Stones, che, un po’ come fa Andreotti con la politica, custodiscono meriti e demeriti di un ambiente corrotto e ormai vecchio; o la musica, il rock soprattutto, è un ambiente pulito, etico e morigerato che fa largo ai giovani? Andiamo.
Che poi non tutti i dj siano equiparabili a dei musicisti è un’altra cosa. Ma non c’entra un cazzo: l’importante è esprimersi, tentare di sovvertire gli ordini stantii, non limitarsi a pensare ma tentare di fare. Sempre meglio un rimorso che un rimpianto: un rimpianto equivale a non vivere.
Minchia, poi a tutti piace più un bel live che un tizio che preme dei bottoni, a tutti o quasi insomma. Ciò non toglie che tra un’ottima cover band e un ottimo dj c’è un abisso. La prima non inventa nulla e imita qualcuno in maniera virtuosa quanto amorfa; il secondo rifiuta di passare dei dischi e suona, ops miscela, produzioni sue con roba d’altri in modo da creare qualcosa di nuovo; fosse anche soltanto una sequenza irripetibile, unica (limitando, qui, ad approssimare per difetto la questione)
Non basta? E allora è meglio vedere il proprio film preferito 100 volte o due volte 50 bei film diversi? È meglio il montaggio video manuale o quello digitalizzato che consente animazioni, effetti speciali e mille altre cose? Se Dostoevskij ha scritto dei gran libri non toglie che Nick Hornby abbia fatto lo stesso pur usando tutto un altro linguaggio, o no?
Ok, questa è un’era nella quale non ci si immagina il futuro e ci si rifugia nel passato, però andrebbero distinti i nostalgici dai conservatori almeno, eh che cazzo. Sì, vabbè questa è un’altra storia? E allora Don Letts è stato un grande cineasta e ha cambiato il punk e la musica per il suo modo di approcciarsi al video allora. Suona meglio così?
Non ho voglia di avere ragione, preferisco essere felice, come ha detto la Letizzetto. Dunque non fate mettere le mani ad Alex Capranos sul mixer e sui cdj: l’ho già sentito fare il dj più volte. Coi Franz Ferdiand è bravo, dunque perché non si limita a fare il musicista? Il dj è un’altra cosa…
Stefano Cuzzocrea