La Grande Giovinezza
di Francesco Sapone - 12 giugno 2015
Sorrentino è un regista che della storia e dell’intreccio dei suoi film, quanto meno intesi come narrazione classica e diretta, sembra fregarsene altamente da qualche anno a questa parte. È più interessato alla realizzazione di scene potenti ed imponenti, o alla comunicazione del suo pensiero e della sua idea attraverso i dialoghi dei personaggi. Sicuramente gli va riconosciuto il merito di pensare e realizzare cinema in grande e di riuscire ad ottenere sempre il massimo dai suoi attori, nonché di lavorare benissimo con la musica.
L’Oscar, al quale di certo non mai aveva pensato, gli ha regalato il grande pubblico e la ribalta mondiale e, di conseguenza, conferito maggiore potere dal quale deriva maggiore responsabilità, proprio come per un super eroe.
Del resto pur essendo imperfetto e ridondante, la Grande Bellezza è un film di enorme impatto e non soltanto visivo. Non sapremo mai se gli americani siano riusciti a cogliere del film tutto ciò che va oltre la bellezza eterna ed immobile di Roma e le suggestioni Felliniane, anche se Sorrentino, ha il difetto di mettere in ogni suo film tanta di quella carne al fuoco da correre il rischio di disorientare anche i sui fan storici e lo spettatore più attento e cinefilo. Non è infatti un caso che in Italia il film abbia diviso anche il pubblico e generato contro Sorrentino un esercito di haters, un po’ come per le rockstar, ed in generale per ogni personaggio pubblico che ottenga grande polarità.
Il recente Festival di Cannes che vedeva in gara Moretti, Sorrentino e Garrone, ha avuto per registi italiani gli stessi esiti ed effetti della sconfitta della Juventus in finale di Champions League. Buon risultato ma questa volta neanche la medaglietta di consolazione. Anche per loro, ingiustificata esultanza e soddisfazione degli haters da facebook che hanno lodato il mediocre ma “socialmente impegnato” vincitore Audard tacciando di presunzione, arroganza e mediocrità Paolo Sorrentino. Per sempre ritenuto colpevole di avere vinto un oscar che secondo loro non meritava.
Detto ciò, Youth non sarà un’opera perfetta, è sicuramente un film minore rispetto a “La grande Bellezza” ma anche più intimo, più doloroso e più personale. Come al solito il regista si interroga su temi importanti. La memoria, il ricordo, la famiglia, la solitudine ed il senso dell’arte e della vita. Compito non poco difficile e ed ambizioso. Non mancano le scene possenti, quelle barocche e visionarie che ormai si possono definire tranquillamente Sorrentiniane più che Felliniane ma che, non per questo, meno inutili o scontate.
Il Film è anche pieno di tantissime cose e riferimenti ad altro cinema. Potremmo scomodare Thomas Mann per alcune influenze “letterarie” o addirittura Mèliès per restare nella storia del cinema. Qualche scena mi ha ricordato anche la trilogia di Seidl più che Paul Thomas Anderson o Wes Anderson che ad alcuni dotti fa sempre comodo citare per sentirsi più “sul pezzo”.
In ogni caso, non possono essere le citazioni, gli omaggi o una reclamata mancanza di trama ad inficiare un film come Youth. Sicuramente pretenzioso, così come lo è tutto il cinema di Sorrentino, ma probabilmente suo miglior film. Ben venga la voglia di mettersi in discussione, osare , pensare e rischiare attarversola grandezza e l’eccesso. Discorso quest’ultimo estensibile anche per “il Racconto dei Racconti” di Garrone. Le riflessioni sul cinema, sull’arte e sulla vecchiaia che Sorrentino fa recitare a Jane Fonda , breve e sfatta, sono intensissime. Giganteggiano per gran parte del film anche Michael Caine e Harvey Keitel, probabilmente alle prese con le migliori parti a loro riservate negli ultimi anni. Non sfigura neanche il giovane Paul Dano.
Youth non è film di facile fruizione, per apprezzarlo e restarne coinvolti emotivamente bisogna lasciarsi trasportare dalle scene e dalla sensazioni. Non si può restare indifferenti rispetto al Maradona obeso che palleggia con una pallina da tennis, all’alpinista che rassicura la figlia dal vuoto durante una scalata portandosela in spalla, dalla Venezia semi sommersa dalla acque che terrorizza Michael Caine. Se ciò non dovesse succedervi, se la vostra attenzione dovesse concentrarsi esclusivamente sull’esile trama, sull’inutilità eccessiva di alcune scene o sulla banalità di qualche dialogo, rischiereste di restare in superficie soffermandovi esclusivamente sulla storia di due vecchi artisti in un albergo svizzero alle prese con tempo che passa e che per loro diminuisce drammaticamente. Che comunque, diciamolo con grande franchezza, già basta ed avanza per piacerci un bel po’.