I come Il Grillo Parlante

di 2bePOP - 30 maggio 2013

Grillo ParlanteOgni abbecedario che si rispetti deve contenere un personaggio collodiano, e, fuor di metafora politica, il mio prescelto è Il Grillo Parlante, con l’articolo determinativo maiuscolo: la voce della coscienza, la saggezza, non quella di Guzzanti che rifaceva Dalla Porta, ma la conoscenza vera e profonda della vita, che fa tesoro di errori e mete raggiunte e conduce, si spera, l’ agire umano
.

Il nostro insetto amico dell’intelletto farebbe grandissime cose se il suo braccio agente non fosse il suo contraltare esistenziale, il suo contrappasso vivente, la sua negazione ontologica  che afferma, nel suo contrapporsi, la positività e la giustezza delle visioni  del Grillo; il suo sarebbe un lavoro fin troppo scontato se l’altra metà del suo Tao non avesse le sembianze dello Scarabeo Agente. Tanto il Grillo è verde e brillante, quanto Lo Scarabeo è nero e opacizzante, tanto il primo si fregia degli ottimi consigli che riesce a fornire costantemente al nostro essere, quanto il secondo lo sbeffeggia influendo nefastamente sull’agire di noi Pinocchi contemporanei, perennemente smarriti nel Paese dei Balocchi della post modernità.

Certo a nostra discolpa se ne possono accampare di scuse: sovraccarico cognitivo derivante dalla convergenza dei media, rincoglionimento voyeuristico da social network, diffusione epidemica di sostanze psicotrope, disillusione nella politica parlamentare ed extraparlamentare, atomizzazione dell’individuo, pornografizzazione della società, svalorizzazione dei rapporti amorosi, arrivismo e buttanesimo eletti a ragione di vita sociale e politica, disoccupazione con tassi sub-sahariani,  vessazione economica delle professioni legate alla cultura ed esaltazione della tecnica titanica e del commercio del nulla, bisogni indotti e modelli culturali posticci, narcisisismo individuale e ostentazione classista sempre crescenti, obsolescenza programmata, delle merci e dei rapporti sociali, reificazione dell’esistenza, incapacità di non abusare della capacità di carico della Terra e conseguenti cataclismi e previsioni apocalittiche sul nostro futuro: bè visto così lo scenario sembrerebbe più  Mad Max che l’Eden e ai più sfuggirebbe il quid che attrae come api sul miele noi Pinocchi contemporanei e Bergson avrebbe finalmente davanti il suo incubo, concreto come la realtà astratto come la virtualità che la condiziona: tenero e ingenuo come si addice ad ogni romantico che si rispetti, il filosofo francese si chiedeva “Che razza di mondo sarebbe se questa meccanicità si impadronisse di tutta la razza umana e se le persone, anziché elevarsi a una diversità più ricca e armoniosa, come sono in grado di fare, precipitassero nell’uniformità reificante?”. Sarebbe il mondo che ha sostituito le persone intelligenti con i telefoni furbi, dove tutti abitano il villaggio globale ma odiano il prossimo pur potendo comunicare a distanza di continenti, (io e te, aborigeno, che cazzo se dovemio di’  guzzantesco racchiude in maniera assai più icastica il problema) gli risponderei io, se credessi nella comunicazione coi morti.

Invece l’Impero è sempre più luccicante, sfavillante dei propri specchi riflessi e dispensa copiosamente polvere di stelle, mentre gli individui che portano le lastre per la costruzione dei suoi monumenti sono sempre più grigi, ma apparentemente felici, inebriati di quell’allegria assai particolare che lega una vittima al suo sequestratore. Si, siamo stati rapiti dal Leviatano, e qualcuno se n’è persino accorto; ma lo veneriamo, preferendo la sindrome di Stoccolma a quella di Stendhal, e ci precipitiamo, Paz docet, con ottimismo verso la catastrofe, contenti che la nostra coperta di Linus si sia magicamente tramutata in addiction condivisa, che, a seconda dei luoghi e dei tempi si può chiamare canna, birra, vino, rum, cocaina, eroina, posizione sociale, esibizione pecuniaria e di status e chi più ne ha più ne smetta.

In una situazione de(l)genere, anche se il nostro amico Grillo riesce a leggere analiticamente gran parte della complessa realtà, il nostro nemico Scarabeo si diverte parecchio a trascinarlo controvoglia a sguazzare nel letame dell’Impero, a specchiarsi nelle sue vetrine e cibarsi del suo junk food, sfoderando l’ultimo smart phone come se fosse una sciabola post-litteram, per chattare con la Cicala che gli sta seduta di fronte, incapace di sillabare parole diverse da shazam, badoo, app, tag, pin, pil, imu, fifa 2013, pdf, brief, mood e altra coprolalia variegata.

“Stupid phone, intelligent people” e viceversa,  questo è il mio claim.

Lo Scarabeo è adulatore ed è carne pura, il grillo è rompicazzo e forza mentale. Lo scontro che ripropongono è sempre la solita vecchia storia, Luce vs Ombra, Bene vs Male, Tao vs Kaos, Jekyll vs Hide, Caino vs Abele, Me vs My Self, Apollineo vs Dionisiaco, Vita vs Morte e via dicendo.

In mezzo c’è l’essere umano, che è sempre meno essere e sempre meno umano. In compenso ha tutto a portata di mano, e poca roba a portata di cuore. Ed è sempre più solo, deprivato della propria umanità ma arricchito dalla tecnologia e addizionato di sostanze ed emozioni altrui.

Ma Lo Scarabeo non si limita a zampettare tra gioielli e rifiuti della nostra era; per arrivare a fare le sue munifiche passeggiate, si spaccia per nostro amico intimo, racchiudendo insieme il Gatto e la Volpe, sotto il suo mantello di cheratina, e ci spinge a seguirlo per saziare un edonismo bulimico e sempre crescente, forte di una compulsività fagocitante e difficilmente arrestabile.

Mai sazio e mai felice, perennemente divorante, lo Scarabeo ci spingerà sempre alla scelta più facile e alle conseguenze più difficili, pubblicizzando il massimo di ricavo dal minore degli sforzi e ottenendo miriadi di accoliti in sua adorazione, abbagliati dalla semplice depravazione del suo cammino. L’unica via è sperare, che a passi brevi e decisi, come consiglierebbe ogni ottimo padre, lo Scarabeo nero si tramuti in farfalla iridescente, o quanto meno, si tolga fuori dalle palle.

Per scendere dal Titanic che affonda ci vuole un Bosco, dove trovar riparo. diceva Junger.

Il mio bush salvifico è fatto di libri, di sport e di solitudine meditativa.

Solitudine che mi tempra, ma mi sbrana anche quando sono in mezzo agli altri, quando sento il mio vissuto come una zavorra e non come una molla, quando mi sento marchiato dal mio sfregio, simbolo karmico della mia vita vissuta sino ad oggi in cui ho cercato di tenere fede al tattoo di Nietszche che mi voleva più forte se sopravvissuto.

Meno male che non mi sono ancora tatuato un’altra frase portafortuna dell’amico Federico: “Per vivere soli bisogna essere o un animale o un dio”, altrimenti  ora sarebbe facile vedermi all’imbrunire, metà uomo, metà gorilla, ad adorarmi, altero, allo specchio dei miei desideri.

 

P.S.: La crisi mistica del pezzo e la distanza dall’ultima pubblicazione sono dovute al fatto che da due settimane sono col fiato sospeso perchè oggi c’è il processo che decide dell’affidamento. L’esito lo saprò solo più tardi. Il mio attuale moralismo, straight edge nelle parole, un po’ più rasta nei fatti, spero si spenga presto: così non mi sopporto manco da solo.

Gianluca Vittorio