Il bacio di GIVDA
di 2bePOP - 7 febbraio 2013
C’è sfiducia nell’aria. Vivere sembra un doversi rintanare in se stessi. Nell’era dei social network e della comunicazione di massa, del futuro precario e del siamo quasi tutti sulla stessa barca, l’individualismo imperante rende soli. Eppure è proprio nell’originalità individuale che risiede l’unicità del riuscire a sopravvivere, almeno emotivamente, della e con la propria arte. Mentre tutti sono impegnati in marchette da 30 denari, un sinth fuori dal coro non si svende e procede da solo. Paradossalmente il suo moniker è Givda.
Sul perché il suo progetto sia svolto in solitaria non ha alcun dubbio: “Le macchine sono sicuramente più affidabili dell’uomo”, ci racconta e, in merito, aggiunge “penso di aver detto tutto”. Viene fuori da un po’ di band, l’ultima, in ordine cronologico, è quella dei Dance for Burgess, gruppo cold wave uscito un paio di anni fa per l’etichetta Mashhh! Records di Casa Del Mirto.
Oggi procede da solo, o quasi: “Tralasciando la scena musicale fiorentina, che penso nel 2012 abbia toccato veramente il fondo (argomento triste, lungo e noioso che si commenta da solo quindi non aggiungo altro), la mia vita è fatta di un nome Megan a cui se ne è aggiunto da poco un altro: Bardo. Poi musicalmente c’è il genio di Umberto Saba (Loud Tone), con cui produco tutte le tracce di Givda e condivido lo studio e la passione per i sintetizzatori, e la follia lucida di Matteo Braccialini”.
Sulla sua città e sui fasti che, negli anni 80, l’hanno resa musicalmente culla della new wave della Ira Records come dei primordi dell’acid house e di Ralph ha, oggi, un’idea pessimista ma veritiera: “Purtroppo ero troppo piccolo per vivere a pieno quel periodo culturalmente entusiasmante. Adesso, Firenze è una città che vive perennemente nel ricordo di quello che è stata io invece guardo al futuro. L’influenza culturale più importante che Firenze ha avuto sulla mia produzione senza dubbio deriva dal movimento futurista dei primi del ‘900”.
È ancora il retrofuturo che non lascia scampo, quello che ha contaminato il suo biografo o inventore Raynolds e che non risparmia neppure Givda. Il suo sound, infatti, è articolato in vecchi sintetizzatori presi in giro per il mondo; acquisti famelici e sapienti che oggi sono l’ossatura di un suono a metà tra l’innovazione e il culto del passato. “Sono molti anni che colleziono sintetizzatori, drum machine, sequencer; prima era bellissimo: riuscivi a trovare oggetti incredibili ai mercatini, oppure su riviste d’inserzioni, tra un ferro da stiro ed un televisore, poi con il boom di internet tutto è cambiato. Tutti adesso possono documentarsi, dare un valore al proprio oggetto, e quindi fare il vero affare è diventato quasi impossibile, però a volte ancora succede. Continuo ad affidarmi come tutti ad Ebay e siti settoriali, poi chiaramente sfrutto i miei vecchi contatti, mentre quando visito altre città cerco sempre il negozio specializzato o il collezionista di zona; ad esempio l’anno scorso da New York sono rientrato con una LinnDrum come bagaglio a mano”.
Un bagaglio ingombrante che alimenta un live fuori dal comune: “Effettivamente sì, dal vivo non uso computer o campionatori e sopratutto non utilizzo il Midi ma solo Cv/Gate, quindi il mio live set in teoria potrebbe essere definito come Analogico/Pre1983”.
Una concezione di concerto che sposa l’idea di performance irripetibile, basandosi su interazioni particolari e diventando fulcro, praticamente, dell’intera l’attività di Givda: “Vorrei divulgare il più possibile Givda soprattutto nella sua forma live.In Italia, attualmente, non esiste una cosa come questa e soprattutto ritengo sia molto versatile ed influenzabile in tempo reale dal luogo in cui viene proposta. Una vera interazione totale uomo/macchina/ambiente. Il sogno comunque resta sempre un anfiteatro romano dove poter modulare i suoni e sentire come si infrangono sulla storia”.
Arte, non c’è altra parole per definire gli intenti di Francesco Lippini. Ma lui non disdegna neppure l’attività in studio. Un processo creativo, il suo, istintivo come l’esigenza espressiva che scorre nelle vene degli eletti e dei matti in senso buono: “Non ho una fonte d’ispirazione ben definita, a volte mi basta sentire un suono o una ritmica naturale che sento come l’urgenza di ricrearla sinteticamente”.
Ovviamente il tutto è puramente strumentale, ma, chissà, forse un domani potrebbero esserci anche delle collaborazioni canore? “Bella domanda, c’ho pensato anch’io ma non inizierò fin da adesso, questo è certo. Comunque ho realizzato un remix per il nuovo singolo dei Brothers In Law, che dovrebbe uscire a metà Marzo”.
Ed ecco affiorare il suo legame con le wave, in un marasma di moti tellurici in analogico che si nutrono di cosmic disco, techno e dub. Il dna, del resto, non si smentisce: “Tutte le persone che hanno un background techno alle spalle definiscono i miei pezzi come wave e viceversa”.
Le definizioni, in effetti, lasciano il tempo che trovano. Come per comprendere le opere dell’antica letteratura italiana, fin da bambino, personalmente mi affido alla loro bibliografie e, quindi, a quell’antenato del gossip che le imbastardisce di stimoli artistici. Anche per lo stile di Givda basta fare lo stesso. “Dentro ci sono tante cose, prima di tutto le città che ho visitato: Detroit, New York, Parigi, Londra, Shangai e soprattutto la mia odiata Firenze. Esteticamente sono attratto dal movimento Futurista soprattutto nella forma architettonica Razionalista. Musicalmente ho sempre amato la scena musicale tardo ’70, che può essere definita come post-punk ma anche il krautrock, la mutant Disco, la techno e se dovessi dire un artista che ho emulato in questo progetto non avrei dubbi: John Carpenter”.
Tutti incroci con quel passato che intrappola la sua città, ma non è un’onta, semmai un tesoro da custodire proprio per questi momenti di crisi, come quelle tastiere prese in giro per il mondo. Del domani non c’è certezza, ma la fantasia di Lippini è razionale quanto avanguardistica: il giorno che verrà per lui non è ne’ roseo e ne’ nero; piuttosto ha delle tinte antiche ed anche cromature cybernetiche: “Parlare di futuro per un moderno futurista non è sintetizzabile”, il che è paradossale per uno che vive di sintetizzatori. Ma, romanticamente, non c’è nulla di più affascinante della dicotomia umana e di un bacio peccaminoso alla non ovvietà.