Ghemon & Gilmar: l’intervista…
di 2bePOP - 8 gennaio 2013
Lui è diverso. Ghemon (o forse adesso si chiama Gilmar?) è un cazzotto nello stomaco a tutto il rap italiano, ma sferrato con la leggerezza di una farfalla e la forza di un elefante.
Cos’ha di diverso? Una laurea in Giurisprudenza, tanto per cominciare, a differenza di tutti i suoi colleghi, e soprattutto di quelli che vestono i panni di scugnizzi da Z movie di Scarface nelle camerette dei quindicenni. Poi indossa, talvolta, la t-shirt dei Joy Division, segno che ha una certa apertura mentale. Senza contare l’animo romantico da anticonformista del soul. Forse è lui la new wave dell’hip hop a casa nostra. Eppure è un estimatore del passato, dal funk e dal soul americani alle posse nostrane. Quello che non si atteggia a vincente e va per la sua strada comunque.
La sfiga lo perseguita. Tant’è che anche nel mega-scazzo tra vecchia e nuova scuola degli scorsi mesi c’è rimasto coinvolto perché si trovava nel posto giusto, al momento giusto e ha detto le cose giuste. The Art Of Rap e le solite proiezioni alterate . Sembrava un po’ Massimo Boldi, in un vecchio film, inseguito dai tifosi del suo Milan e anche da quelli della Roma. “Non mi va di parlare di quella diatriba, fa troppo male”, commenta a caldo.
Difatti gli scazzi sono inutili. Soprattutto ora che la scena sembra rinvigorita. “Nuovi,meno nuovi, tutti fanno e hanno qualcosa da dire, spesso anche di spessore. Quanto a me, guardo la cosa da fuori, spesso. Mi sento come un fratello che è andato a lavorare altrove, un tifoso; non di una squadra ma dell’intero movimento. Io non devo fare i dischi che ho già fatto, perciò faccio il tifo per chi può migliorare l’immagine di questa cosa, non dimenticando il lato culturale dell’arte. Auguro a tutti di fare delle cose che durino nel tempo o per lo meno, che loro stessi ricordino con orgoglio”. Ma non lo dice per darsi un tono: lui è davvero diverso.
E poi ha già capito qual è il problema reale, anzi tutte le controindicazioni. Ed ovviamente la prima tra tutte è la saturazione. E magari fosse solo quella: “Da un lato non ti puoi fermare, perché altrimenti la gente ti seppellisce dopo tre mesi, dall’altro penso che un video, un pezzo, iniziano ad avere una vita di sei ore per internet. Bisogna sapersi dosare. Però, pure per sparire ci vogliono i soldi”.
Ci aveva già pensato a sparire. Un anno fa aveva dato l’addio al rap pubblicamente. “Un giorno le mie parole sul mio addio avranno senso e si capirà che non c’era nessuna incoerenza. Nel frattempo che si arriva a quel punto, lascio parlare la musica che mi viene. Se il genere musicale è un vestito, a me piace il patchwork. Altro discorso, invece, è il mio amore per la cultura hip hop: quello prescinde dalle scelte dell’artista”.
In verità tutto lascia presagire che si metterà a cantare più che limitarsi a rappare. “Vedi che il cambiamento ritorna sempre? E’ ineluttabile, per me. Non dirò niente finché non esce il primo singolo. Ho un disco nel cassetto, ma al 99% non uscirà. Sento di dovermi confrontare con cose diverse e dello stesso avviso è Fid Mella, ovvero il beat maker che mi sostiene da sempre. Vogliamo iniziare da capo, ci sentiamo cresciuti, anche anagraficamente, ed è tempo di lavorare ancora più duramente. E’ una cosa che ci sentiamo di fare perché il lavoro ci gasa. Esatto, hai capito bene: lavorare ci gasa”.
Ecco il punto: mentre tutti gli stradaioli fanno i perdigiorno lui ha un altro credo. Una cosa che si evince chiaramente dai suoi testi: poesie a cielo aperto. Guarda in alto, si potrebbe dire citando i Casino Royale, tant’è che la sua ultima uscita è stata prodotta da Marco Polo, noto beat maker americano. Si intitola, devotamente, Per La Mia Gente. “Marco e Bassi si erano beccati prima in tour europeo e poi a Brooklyn in studio da Marco. E’ proprio lui, con grande sorpresa, che ha proposto di fare l’ep e il tour. Devo dire che è stata una grande esperienza e un motivo di crescita personale e artistica. Dico grazie a loro due per avermi coinvolto, motivato e sgrezzato. Non si finisce mai d’imparare”.
Intanto la gente sta imparando a leggerlo meglio, tentando di arrivare sino alla sua profondità poetica. “Dico sempre: le persone vanno per stadi. Il primo è ma che merda è questa?, seguito da ancora questa roba?!, a cui poi di solito segue il beh però perlomeno è originale e si conclude il ciclo con questa roba la fa solo lui, è un mito!. E’ il cerchio dell’evoluzione di chi si espone. Penso che sia cambiato il fatto che, a parte i miei fan storici, lo zoccolo duro che mi ha sempre seguito, gli altri siano passati da considerare la mia fastidiosa stranezza come una originale peculiarità. Come dice Guzzanti, Tu sei un po’ pazzo, vero? E’ na’ qualità!”
E in tutto questo, a ragion veduta, lui, mentre si trasforma e si evolve nelle sembianze di Gilmar, si gode una ricercata e forse trovata maturità artistica ormai riconosciuta “come un bel passaggio della mia vita, che però va avanti, perciò non posso fermarmi. Quello che mi interessa è fare buona musica, il resto sono proclami, un giorno li fai e il giorno dopo te li rimangi”.
Magari potesse rimangiarsi anche il duetto con Siria però: lei potrà anche essere la regina delle mie pugnette, ma quel pezzo è una marchetta. Del resto se esistesse già la perfezione che senso avrebbe l’idea di evoluzione, o addirittura il vivere? E poi anche la coerenza è una noia mortale…
Stefano Cuzzocrea