F come Ferrara

di 2bePOP - 19 aprile 2013

ferraraUn mese è trascorso, da quando sono atterrato su Ferrara. Trenta giorni in cui ho curato più la mia anima e il mio corpo di quanto fosse accaduto negli ultimi dieci anni. Sarà perché gli unici tweet che ascolto sono quelli degli uccelli quando mi sveglio all’alba e che anziché nella marea degli scooter roboanti catanesi o nei flutti dei treni metropolitani milanesi qui è dolce naufragare in un mare di biciclette.

Grazie al senso di displacement decantato come fondamentale da Walter Benjamin per la comprensione dei luoghi nuovi e quindi, aggiungo io, di se stessi, qui la mia storia e la mia faccia tagliata, sapientemente bilanciata da occhiali da vista che avevo smesso dieci anni or sono, non rappresentano  degli orpelli definitivi.

Non essere nessuno per gli altri e non avere punti di riferimento geografici e toponomastici, fare tabula rasa per riscrivere la propria vita, e pedalare come un bambino, con l’illusione autoindotta che tutto possa andare per il meglio che si gonfia come una vela al vento di primavera.

Gioco a calcetto con una crew niente male, in cui sono stato accolto con fratellanza e naturalezza dal Vecio, Izio, Cuci, Rosso Malpelo, Labbro e Bruno: un bellunese, tre trapanesi, un tarantino e un padovano e la barzelletta è assicurata. Senza considerare la mia proverbiale simpatia catanese.

Le prime due partite ho spaccato, gol e assist come ai vecchi tempi, la terza ho giocato uno schifo, ma non  mi sono depresso più di tanto, come mi capita solitamente quando gioco male.

Partecipo a barbeque degni delle migliori backyard di jamaicani trapiantati a Pittsburgh, conditi dalla mango jerk sauce, davvero superior, di Pipol e Ludol, lui amico romano di antichissima data, lei sua compagna salentina, miei primi e fraterni ospiti,  nel loro giardino d’altri tempi, tutto margherite, tulipani, ciliegio e orto annesso, in cui il vecchio boarder collie Artù cerca tutto il tempo con scarsi esiti di montare Kira, la cagnetta di Saku, ragazza di origine indiana  compagna di Bruno, che per completare l’estasi delle giornate ci regala dei massaggi prova della sua comprovata arte manipolatoria.

Seguo una dieta che in due settimane mi ha già portato numerosi benefici.

Mi hanno rubato la bici, come battesimo del ferrarese, e me la sono subito ricomprata, e la custodisco tipo Sacro Graal.

Vado in palestra quasi ogni giorno, corro e faccio pesi. Anche lì ho trovato pugili, un moldavo e un tunisino italiani -cui ho spiegato di essere in fase troppo zen per i cazzotti-  sorrisi, gentilezza, e Ale, il proprietario, un pompato atipico, autoironico e simpatico, amante della musica anni’80,  perfetta nella sua vacuità per allenarmi spensierato, e assolutamente tollerante nei confronti del Pedro di turno, gay militante presumibilmente dedito al meretricio, che grazie al determinismo anti-dialettico che muove gran parte degli omo, asserisce senza dubbio  di sorta che chi ascolta musica anni ’80 e veste Versace è frocio al 100%. Forse più che al sillogismo aristotelico dovrei pensare al Fedro della volpe che si protende vanamente verso l’uva, nell’analizzare la situazione, ma il risultato comunque è che mi faccio delle gran risate.

Il resto delle giornate lo trascorro o leggendo, a casa o al Parco Massari, da quando il sole ha scalzato la nebbia, e girando rapito dalle meraviglie architettoniche e artistiche di questo gioiello di città, rovinato solo dalla tragedia infinita di Federico Aldrovandi, alla manifestazione per il quale ho partecipato, tra brividi, lacrime e applausi. Sua madre da vicino emana una forza calma e paziente che solo le madri riescono ad incarnare. Io sull’avambraccio destro, a incorniciare la palla numero  8 del colpo vincente, l’ho scritto a venti anni: Fuck The Cops Anyway. Comunque vadano le cose, l’Anyway salva il resto.

Da questa  storia di ferocia e miserie  umane mi riprendo con il trionfo della vita sulla morte, che va in scena nei maggiori luoghi di cultura di Ferrara. Nei palazzi del Rinascimento, a estasiarmi e sragionare su storie, colori, dipinti, miniature e vicende degli uomini del Quattrocento, il secolo della Rinascita Umana, lo spettacolo è incessante, la scoperta continua e lo stupore si lega indissolubilmente alla formulazione di nuovi percorsi mentali, in un tripudio intellettuale che bramavo da sempre. La vera Estensione, dall’etimo Estense.

Ho goduto a casa Romei, contemplando gli affreschi dall’iconografia classica ma sempiterna, con bestie umane e uomini bestiali che affollavano i tetti della Sala della Scimmietta, elemento allegorico fortemente ricorrente ed autoironico di tutta l’iconografia del periodo, su cui successivamente e progressivamente, voglio approfondire le mie impressioni e arguzie del momento, insieme a ghiande ed unicorni. Al Museo della Cattedrale ce n’è uno di unicorno che dovrebbe rappresentare la salvezza del peccatore, minacciato da cerberi maialiformi, ma il suo ghigno ricorda tanto la storia della padella e della brace da far venire i brividi.

Sugli antifonari miniati dall’Argenta e dal Vendramin qualsiasi grafico pubblicitario dovrebbe prendere appunti per ore, per poi finire frustrato di fronte a cotanta arte, intrisa della ferocia delle rappresentazioni cattoliche, dense di spade e santi guerrieri, di angeli apocalittici e colori cremisi, pervinca e verde smeraldo, oro e sangue, vittorie e dolori, decapitazioni di santi e nascite di Gesù, truculenza e sottomissione.

L’opera clou del museo in questione è comunque il San Giorgio, patrono della città, di Cosmè tura, genio ferrarese che il nostro Kehinde Wiley avrà studiato come un preacher fa con la Bibbia. Tragedia della sofferenza umana e suo superamento nell’annientamento del demone drago, 3,60 per 1,70, e il prezzo del biglietto è ampiamente ripagato.

A Palazzo dei Diamanti ho gustato le magie del Maestro dagli Occhi Spalancati, e di quello dagli Occhi Ammiccanti, la mistica austera del Carpaccio, le visioni grand-guignolesche e il realismo penitente del Panetti, i giochi di luce e croma dell’Ortolano, gli angeli rossi psichedelici del Mantegna, la cruda espressività, seppur bilanciata dai colori tenui, del Garofalo, la perizia sconcertante di El Greco, l’imponenza  epica del Guercino, il realismo espressivo dello Scarsellino e la cupezza visionaria del Bastianino, autore di un Bacco con scimmia davvero inquietante, così, tutto d’un fiato, prima di scappare al Centro Anti-Violenza, presso cui sono in cura.

Perché a Ferrara sono venuto per un motivo principalmente: analizzare, definire e sconfiggere ciò che ha impedito la mia espressione per trentacinque tremendi e splendidi anni, tenendomi incatenato ai miei mostri come un prigioniero delle segrete del Castello Estense felice del suo rancio, con la differenza che uscire da sé stessi è più improbabile di scappare da un maniero medievale.

Ho profuso violenza durante la mia vita, con la stessa generosità con cui dispendiavo cordialità e disponibilità  filantropiche, senza capire cosa era Bene e cosa Male, in una sorta di calderone comportamentale schizofrenico, servendo pietanze disgustose condite talvolta da ottimi condimenti.

Questo, oltre ad essere un esperimento letterario e  catartico, è una sentita e doverosa e continua penitenza, che chiede scusa a coloro che ho ferito, anche gravemente, nel corso della mia fotonica esistenza. Ragazzi e ragazze, uomini e donne, che ho invitato e servito al banchetto della violenza, e che ora spero di riuscire a risarcire, con quello che mi resta, quelle parole che raramente possono riuscire dove i gesti hanno miseramente fatto danni inimmaginabili.

Quindi vado dallo psicoterapeuta che mi assiste, con molta professionalità e intelligenza, e cerco di riuscire nel diventare una persona per bene. Per me e per gli altri. Per non fare più incubi. Dico “fare” incubi, perché oltre ad averli sognati e a sognarli, io sono riuscito laddove ho fallito coi sogni: dare concretezza ai miei nightmares con una dovizia di particolari che Freddy Krueger è un collegiale a confronto.

La mia venticinquesima ora dura da un mese, per un altro mese abbondante. Sempre con le manie di grandezza, io. Solo a fine del prossimo maggio saprò se il Tribunale di Sorveglianza di Catania acconsentirà alla mia permanenza ferrarese. Devo pagare un anno per le mie cazzate, nello specifico, e sto chiedendo l’assegnazione ai servizi sociali di Ferrara. Mi serve un alloggio, un attività sociale, e ce li ho, e un lavoro, e mi manca, come la figurina di Dan Corneliusson del Como quando ero piccolo: difficilissima da reperire, ma quando arriva l’album è completo e si può festeggiare. Io ce la sto mettendo tutta. E pianti e risate mi fanno da amici in questa strana strada che è la vita. Mentre non smetto di ascoltare “Don’t ever leave me” dei Wailers del periodo in cui Bob Marley sembrava Clark Gable in smoking e Marcia Giffiths cantava con lo stile beat anni’60. Non mi lasciare mai, dice il testo. Anima mia, aggiungo io.

Gianluca Vittorio

  • saro cast

    molto bello questo articolo….continua cosi’ e il passare del tempo aggiustera’ le cose….hai tutta la mia solidarieta’ ( e sono curioso di vedere la “concretezza dei tuoi nightmares” anche se forse e’ meglio di no),,,,mi sembra un’esperienza ottima

  • G

    grazie caro Saro

    • saro cast

      E’ proprio un bel pezzo di scrittura….hai letto “Terra matta” di Vincenzo Rabito, ed. einaudi (credo Struzzi) un contadino di chiaramonte gulfi che racconta sgrammaticato anzicchenno’ le sue avventure delle due guerre mondiali etc.??? te lo consiglio

      • G

        no, lo farò

  • g

    ho letto, eccezionale