Un jazzista inconsapevole che fa rap e si chiama Ensi: ecco l’intervista
di 2bePOP - 30 aprile 2013
C’entra eccome. Nella giornata mondiale dedicata al jazz lui è il futuro a noi più prossimo. Molti si chiederanno: come Ensi? Altri: chi è Ensi? Se qualcuno dovesse avere la pazienza e la costanza di arrivare a fine pagina potrebbe trovare risposta ad entrambi i quesiti, altrimenti non gli resta che affidarsi alle solite trombe e trombette, ma a quel punto gli si potrebbe anche dare del vecchio trombone, o del conservatore sopravvissuto all’epoca Bush Jr e ora in modalità superlativa col Governissimo.
Dopo l’introduzione, ecco il nesso. Chi ha studiato già saprà chi è Amiri Baraka. No, non è un’acquisizione da bimbi minkia: lui c’era già all’epoca della beat generation ma non è un nostalgico come quei tesserati del PD che rimproverano i propri figli per l’insignificante aria del dissenso odierna, facendolo da dietro una scrivania magari; non è neppure uno di quelli che ha fatto inversione di marcia come Giuliano Ferrara, anzi, è talmente poco nostalgico che nella riedizione del suo libro, monumentale e breve, intitolato “Il popolo del blues”, chiarisce subito cosa c’entri un rapper col jazz. Riassumendo moooolto brevemente il senso della (ri)prefazione scritta di suo pugno è da constatare che tutta la musica di matrice afroamericana è basata, prima ancora che sul bluenote in 12 misure tipico del blues e dei suoi derivati, dall’improvvisazione: un’attitudine portata in barconi affollati e scomodi dal Continente più vecchio del mondo e rilegata in ottave Oltreoceano.
Diamine, allora un rapper che ha basato la sua carriera sul freestyle è un jazzista? “Magari lo fossi” risponde il giovane pluricampione di rime improvvisate italiano. Si chiama Jari Ivan Vella, classe 1985, ed è nato nella periferia torinese. “Nel mio album ho voluto duettare con Samuel per condividere i colori che abbiamo trovato dietro il grigiore della nostra città; le sono grato: se fossi cresciuto altrove non sarei stato così, sia in termini di personalità e ricchezza musicale che per la concezione di meltin pot che mi ha trasmesso”. Ebbene sì, non solo il rapper si è sparato un duetto con il leader dei subsonica ma ne ha firmato anche un secondo per i Motel Connection, che ora è in rotazione sulle radio e sulle tv nazionali.
Ah, già, la televisione. Per lui non è una novità: dopo aver vinto tutte le battle di freestyle italiane, a partire da Tecniche Perfette, ha trionfato a quella andata in onda lo scorso anno su Mtv, un format chiamato Spit. “Sta sempre agli artisti saper sfruttare le situazioni”, dichiara con fierezza parlando di quella trasmissione. Ha le idee chiare e ci ha pensato bene prima di partecipare: “Inizialmente gli avevo detto di no: io avevo già fatto il mio percorso di gare e volevo lasciare spazio ai più giovani; in più la tv aveva riprodotto male queste cose in passato, e tra l’altro non è facile catturare l’energia delle battle con le telecamere: è un’esperienza che si percepisce appieno solo live. Però mi sono detto che bisogna non prendere tutto ma canalizzare le cose in ambito hip hop, non fare la figura dei pagliacci insomma, basta questo. Non devono esistere più le fazioni o i settarismi, il passato ci è servito a non commettere gli stessi sbagli: siamo maturi come scena ormai. Non sono un venduto se vado su Mtv: sono loro che mi chiedono il video, perché tanto la gente li vedrebbe su Youtube”. Come dargli torto dato che il colosso televisivo sta spendendo milioni per non farsi fare concorrenza dal Tubo? La piattaforma Vevo è sua, insieme a tre delle major discografiche mondiali, e per tirarla su hanno assoldato proprio il nemico: Google e il suo knowhow. E poi Esni ha capito tutto: “Se ci fosse stato Split nei 90 in tv al posto di Non è la Rai, avrei rappato tre volte meglio”. Fatti: non pugnette, diceva un politico della satira, ma forse sono proprio i comici a dire la verità in Italia, loro e i rapper.
Sulla rinascita commerciale dell’hip hop pare abbia influito proprio questo: “È un’unione di fattori, a dire il vero”, ci spiega. “L’old school italiana, quella dei 90, ha creato lo stile e noi abbiamo attinto da lì, nessuno escluso, però finalmente siamo riusciti a sfruttare tutto quello che la prima generazione ha fatto. L’interesse è cresciuto a macchia d’olio. Prima riuscivano ad entrare nel mainstream solo legandoci ad un sound melodico tipicamente italiano. Noi, e io ne sto usufruendo senza essere un titano, stiamo sfruttando la forza del rap. Mettiamoci pure la crisi sociale, l’ignoranza e il conformismo: l’hip hop emerge per realtà, messaggio e integrità. Difatti anche senza lo show su mtv si accumulavano visioni su youtube e spettatori ai contest, tant’è che è la tv a rivolgersi a noi e non più il contrario. Prima non c’era unione e noi l’abbiamo capito, ne abbiamo fatto tesoro e, difatti, siamo coesi adesso”.
Tutti discorsi con un senso deciso e indagatore, se pure sono sempre, come in passato, ancorati al mondo del rap, ovvero una sorta di autismo della scena che oggi sembra sconfinare nei palinsesti, nelle grazie dei politici, soprattutto quelle intime della Minetti, ed anche sul palco del Primo maggio, dove Ensi suonerà insieme a tutta la ciurma dei grandi nomi dell’anno e quelli soliti. Del resto quando è uscito “Era tutto un sogno”, il corpulento e giovane rapper torinese ha esordito tra i primi posti in classifica, contemporaneamente a gente come Eros Ramazzotti e i Negramaro.
Tutto questo senza fare sconti a nessuno. Certo, assolve la compenetrazione di Max Pezzali nel filone rap ma è per una questione ben precisa: “Lui è il male minore: come linguaggio è sempre stato abbastanza simile a noi, prediligendo forme gergali e di strada”. Tra l’altro non è Max e il successo facile che ha voluto dentro questo fortunato album ma il poetico e controverso Kaos: “Lui è un maestro umano: mi ha insegnato inconsciamente a scrivere e anche a vivere per certi versi”.
Ecco, le collaborazioni: Ensi ne ha fatte tante ma con un criterio che profuma del nesso iniziale e della giornata mondiale dei non tromboni. “Una collaborazione deve arricchire tutti quelli che ne prendono parte: bisogna prendere atto che siamo nel 2013 ed è sotto gli occhi di tutti che è un produttore non fa solo il produttore nel disco, e un rapper non fa solo le strofe. Potrei fare un pezzo con un gruppo metal, senza snaturare nessuno dei due: basterebbe mirare a rispettare l’idea di scambio costruttivo e mantenere, dunque, la radice comune”. Un po’ come quando, dopo ogni assolo si torna coralmente sul tema, sul blue note. E riecco il jazz. Perché, senza improvvisare nient’altro, cos’è la musica se non un punto d’incontro?
Stefano Cuzzocrea