E – Egotismo as a fine art
di 2bePOP - 11 aprile 2013
Mr Adv mi ha appena fatto sapere con una mail che sono ancora in tempo per laurearmi. Mi rinfranca, iniziavo a dubitare delle mie doti studentesche. Qualcosa, forse il “Do you like virus’” da clickare in fondo alla pagina, mi fa ripensare alla sua sincerità e subito si sprigiona un sulfureo puzzo di accordo con mia madre. Da quando ha imparato ad usare al computer è pericolosissima.
Ovviamente per rientrare nel pieno cliché del genio e sregolatezza, del talento incompiuto e del perenne incompatibile col sistema prima scolastico e poi universitario italiano, non ho conseguito la laurea. E tuttora la mia incubatrice d’incubi quotidiani -anzi notturniani- produce parecchie puntate che mi ritraggono impreparato a scuola ed incapace di prendere la maturità, scolastica s’intende, perché per il resto sto diventando un ometto.
Inizio a capire persino che non tutti quelli che conosco sono buoni e generosi e autoironici come me, che non sono tutti comunisti d’animo e men che meno di gesti, che non tutti hanno capito i libri che hanno letto e che la paura delle differenze e del confronto regola ogni movimento di testa e corpo di un gran parte dell’umanità.
“Io soffro per i mali del mondo” diceva Elio Vittorini. La lessi a 14 anni la sua Conversazione e provai un’empatia così profonda per questa affermazione, che mi feci carico della disperazione di tutti gli abitanti della Terra e dintorni, di epoche contemporanee, passate e future, gettando le basi per la vera catastrofe dell’esistenza umana in generale e in particolare della mia: le aspettative e le conseguenti delusioni. Nelle prime ho riposto sempre troppe speranze, nelle seconde, di conseguenza, ho riversato troppa veemenza.
Penso che mi manchi uno strato di derma. Quello che impedisce tuttora di farmi scappare le lacrime davanti al più bieco dei finali polpettone delle peggiori produzioni televisive e cinematografiche, quella lamina che mi faceva venire il groppo in gola quando la bambina di cui ero innamorato all’asilo divideva i suoi crackers con uno senza erre moscia, quella protezione necessaria all’uomo quanto lo è la corazza per il Granchio, che nello zodiaco diventa Cancro, ma della società, come me. Così ho sempre risposto alla domanda sulla mia appartenenza oroscopica.
Quindi sono passato al ribaltamento del possibile, rivoluzionario ante-coscientiam, e per non accusare su di me l’eccesso delle iniquità terrestri, ho provato con grande pervicacia e costanza a far soffrire il mondo per i miei mali, con discreti risultati peraltro, riscontrabili in prevalenza sulle persone che mi sono state più vicine. Sono diventato così l’incarnazione perfetta della prassi comune per la quale agli sconosciuti, ai conoscenti e anche agli amici più superficiali si riserva di norma un trattamento assai migliore di quello che si utilizza per i propri cari, genitori, partners o amici intimi, per una sorta di bilancia della giustizia relazionale mal tarata, che ci suggerisce assai utilitaristicamente su quali persone vomitare il nostro mal di vivere e quali individui preservare.
Spassu di fora e triulu di casa, spiega tutto: risate fuori dalla propria dimora e inferno tra le mura domestiche.
Ma adesso ho deciso di crescere perché ancora sono in tempo.
Si cresce sempre, mia nonna Tracia, fino all’anno scorso, me lo diceva sempre, quando le chiedevo come stava: “Criscemu” e aveva 87 anni. Ora non me lo dice più, forse ha finalmente compiuto l’opera.
La cosa più triste del diventare adulti è rendersi conto che molti dei luoghi comuni che ci facevano imbestialire hanno fondamenta assai più solide di quanto ritenevamo, è che ogni giorno che viviamo in più su questa terra è un giorno in meno che viviamo su questa terra. Altro che Achille e la tartaruga. Quindi crescere è anche vedersi protagonista, o quantomeno il verificarsi, di luoghi comuni odiati, ma anche vedersi diversi da quello che si era sperato di diventare.
Ma torniamo all’egotismo dell’incipit. La scrittura è un’ottimo esempio di come si possa essere al contempo autocentrati ma altruisti, pieni di se ma pronti a ricevere gli Altri, autocelebrativi e dissacratori di se stessi, individui unici e insieme esseri umani, quindi appartenenti alla propria specificità ma allo stesso ad una generalità, una comunità, una consociazione di animali societari.
Io scrivo dei cazzi miei da un lato per il gusto esibizionistico e catartico, che accomuna tutti gli uomini di penna, di far vedere quanto sono diverso dal resto della mediocrità planetaria, dall’altro per suscitare in chi mi legge quelle emozioni e riflessioni che solo l’empatia può produrre. Stupire con cose assurde e coinvolgere su un minimo denominatore comune umano. Essere unici e comuni, questo è scrivere per farsi leggere. La dialettica della letteratura penso che risieda in questo ossimoro. E giungo, per attitudine serendipica, laddove volevo arrivare. Anche gli ossimori, nemici giurati della stabilità, possono diventare luoghi e modi del pensare e dell’agire comune, quindi è perfettamente plausibile che uno che abbia sempre voler stupire tutti sia caduto nella rete dell’ovvio.
Per non essere ovvio quindi vi rivelo un segreto.
L’esaltazione di sé, quella pura, reale, dell’uomo che ama se stesso tanto da poter abbracciare con un sorriso il mondo intero, un sano culto del proprio ego, delle proprie qualità e delle proprie caratteristiche, senza mai giore per le tragedie e i fallimenti degli altri, con attitudine cooperativa e curiosità antropologica come molle fondanti, è alla base dell’amore per la vita degli altri.
“Da ciascuno secondo le proprie qualità, a ciascuno secondo i suoi bisogni” diceva Karl. Io toglierei di mezzo il suffisso bi, essendo un ragazzo onirico.
Da se stessi si parte, agli altri si arriva.
Come quando si fa all’amore, attività generatrice di vita, unica e prima. Godere e far godere. Coltivare se stessi nello specchio dell’Altro, gioire di un proprio successo con la stessa intensità con cui si gode della realizzazione delle persone che riteniamo valide, ma spingersi più in là e cercare di trovare i diamanti dal letame, oltre apparenze, consuetudini e convenzioni. A Milano sei tanto più figo quanto più disprezzi gli altri, gli sfigati: la logica è sempre quella del limite, del confine, dei barbari e della paura del diverso: gli attori, gli artisti, i registi, gli scrittori che non sei tu. Qualsiasi persona faccia qualcosa sembra vi si dedichi solo per screditare quelli che sono impegnati nella stessa attività, colpevoli addirittura di essere Altri da sè. Mi sembra tanto meschina questa pratica quanto il non rendersene conto. Sembro Osho, lo so, ma l’invidia è un a brutta bestia. Io la paura del confronto non l’ho mai avuta, perché troppo sicuro di me, tanto da fottermi da solo. Ho sempre esibito la mia vitalità ed esuberanza e passione come un gioiello; sono stato pronto ad esaltarmi dei successi delle persone che ho ritenuto, a torto o a ragione, valide, in una logica di scambio e dono che manco Marcel Mauss che se ne intende, per dirla col Proietti della Mandrakata.
Se sei un genio della scrittura, non ti dirò mai che è carina la tua roba. Ti dirò che spacca, che dobbiamo scrivere un fumetto, un romanzo e un film assieme, oppure ognuno per conto nostro, ma sarò in prima fila quando ti premieranno. Dovrebbero inventare delle prugne per la stipsi dell’anima. Ma il mondo perderebbe le sue gerarchie, e i rapporti di forza che regolano l’inquieto vivere si schianterebbero al suolo come Golia. Troppa roba mi sa. Io mi ostino naturalmente a parlare ad un servo come ad un re, come diceva Kipling -ah se mi sentisse Corrado Guzzanti, che per me è Jesus!- e continuo a ritenere che sia la mia migliore qualità. Non me la sono mai menata, neanche prima di ridurmi a scrivere per dimostrare che non sono solo una bestia, o almeno, che ho smesso di esserlo. Da una riduzione passo istintivamente alla moltiplicazione, perché alle elementari, con la licenza poetica, ho conseguito con successo anche un Master in matematica creativa.
Ho appena scoperto che Alessandro Garigliano, amico dei tempi del liceo, scrive, Ma la notizia forte è che il suo romanzo va in finale per il premio Calvino. Non sapevo che scrivesse e neanche lui di me. Non so come scrive, sono sanamente e sportivamente competitivo, ma ieri, congratulandomi con lui “a prescindere”, come direbbe Totò, ho provato lo stesso brivido che mi percorreva alla fine degli incontri, quando abbracciavi l’avversario dopo essertele date.
Ecco, forse facevo boxe, più che per la pugna, per la riconciliazione, per la pacificazione del conflitto. E per combattere la paura, perché la boxe è uno sport per paurosi, per gente che si confronta coi propri demoni e s’illude di poterli domare a cazzotti. Ma questa sarà la lettera P.
Leggendo s’impara ma scrivendo si capisce.
“Scateniamo le tempeste ma preferiamo il sole” recitava una splendida scritta murale in un periodo storico uggioso, ma foriero, come la pioggia, di rinnovamento culturale, se non altro.
Forse anche gli aforismi da muro andrebbero banditi, o sottotitolati, o, quantomeno, messi sotto Parental Advisory.
Gianluca Vittorio