DYD, nostalgia del futuro anteriore

di 2bePOP - 16 dicembre 2014

dydScenario postindustriale. Periferia. Contorni di un centro che è ancora maestosa testimonianza di fasti europei passati. Odore di kebab. Sobborghi della stazione centrale. Loro il treno per la contemporaneità non hanno affatto intenzione di perderlo. Questa volta meno che mai. I DYD vivono qui. In una Torino fatta di mattoni antichi e circuiti cyberpunk. Berlino li ha battezzati nella cattedrale della techno mondiale, quel Bergahin dal vezzo inaccessibile e dalle lunghe file di gente in cerca di nuove verità. Loro erano sul palco. Hanno tolto la i di DiD e ce l’hanno fatta. Il presupposto è God: un ep concepito nei luoghi natii e lanciato verso altri confini. L’esterofilia a tutti i costi è per gli stupidi, noi siamo Torinesi al 100% (Quirino ormai lo è di adozione) e questo non ce lo scrolleremo mai di dosso neanche se volessimo. Abbiamo fatto un disco mettendo in campo le eccellenze della nostra città. Per quanto riguarda la promozione, in realtà guarda che stiamo lanciando in egual modo sia in Italia che all’estero solo che qui c’è meno risposta, secondo te come mai?”. L’antagonismo li connota già da quando suonavano punk-funk, da quando erano ventenni col coltello in mezzo ai denti, le chiavi di un furgone e le bacchette della batteria come matite per disegnarsi un futuro, un altro mondo possibile, un domani su misura per monelli. Attitudine, cazzo. Dopo è venuto un ep in simbiosi con i Liquid Liquid. Miti del passato che ritornano. Poi si intravede la soglia dei 30 anni e la virata diventa maturità, o corsa per raggiungerla. “La domanda che ci siamo fatti è stata: ma invece di piangerci addosso tutto il tempo perché siamo Italiani (noi lo facciamo fino a un certo punto, in giro ci sono poi dei campioni in quanto a piangersi addosso perché si è Italiani) perché non ci rimbocchiamo le maniche come hanno fatto i ragazzi, perché non facciamo quadrato e non sfruttiamo queste connessioni? Nasce tutto li”.

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E infatti si sono chiusi in studio con Max Casacci dei Subsonica e Vaghe Stelle, fondendo trascorsi e speranze di un posto che gli respira fuori e dentro. Si tratta di quell’epicentro del Piemonte che è stato per oltre dieci anni l’epicentro della musica italiana altra. Sembrava tutto finito. Guido Savini, voce della band, lo aveva dichiarato a caratteri cubitali dalle pagine di Repubblica in un’intervista che ha ormai un annetto. “La città è in crisi nera e le attività culturali lo sono di conseguenza. Detto questo non serve stare in un luogo ricco e prospera per fare buona musica, anzi a volte è quasi meglio il contrario, hai meno distrazioni”.

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E dentro questo Dio fatto di tre pezzi e un redit è confluita tutta la pasta elettronica ingurgitata in giro per l’Europa e bollita anche all’interno del calderone Club To Club, storico festival indigeno per il quale proprio Guido lavora in veste di assistente alla direzione artistica. “Sì, C2C insieme anche a realtà come l’Astoria restano una roccaforte culturale importante per Torino. Partendo dal presupposto tutto quello che ci accade influenza la nostra musica, abbiamo molti amici produttori Italiani che fanno di gran lunga la musica più interessante in circolazione: penso a Vaghe Stelle, Lorenzo Senni, One Circle, Dave Saved, Haf Haf”. Eppure per la povera Italia nutrono dei rancori ascoltando le medesime ragioni. “Detta in breve, for dummies: l’Italia non è un mercato discografico, stop. Quindi a parte rarissimi casi, alcune isole felici, è molto improbabile che si formino delle realtà commerciali di successo legate alla musica. Per gli artisti il discorso è diverso, leggevo l’altro giorno su XLR8R che l’Italia è un paese che ha un importantissimo storico per quanto riguarda l’apprezzamento e l’innovazione della musica elettronica mondiale. Io sono assolutamente d’accordo”. Ma il discorso è ricco e complesso. Difatti a parlare con loro dei nuovi nomi dell’elettronica, e in generale della musica, prodotta in Italia viene davvero lo sconforto. “Io trovo ancora che il 90% della musica elettronica italiana suoni vecchia di almeno due anni. Non sono un cultore del nuovo a tutti costi, ma sembra veramente che ci sia un’emulazione forzata di cose che hanno avuto il loro momentum sempre appena prima. Non voglio sembrare pessimista, semplicemente credo che abbiamo il dovere di essere iper esigenti se vogliamo arrivare davvero ad avere una scena al passo con i tempi. Purtroppo spesso questo delay in Italia è colpa anche dei media musicali (non mi riferisco solo a quelli mainstream, ma anche alla maggior parte dei blog) che tendono ad esaltare qualcosa che non si rendono conto essere spesso già passato. Io preferisco ad esempio leggermi un focus su Lorenzo Senni su The Fader.”

È la seconda volta nella stessa intervista che compare il nome di Lorenzo Senni, ma la y con la quale i DID si sono trasformati in DYD non è quella di gay: semplicemente hanno una passione per la techno d’avanguardia, che hanno magistralmente tessuto in forma canzone per darsi dei nuovi panni. Tra l’altro l’album d’esordio, perché di esordio si tratta, se pure il tutto nasce già dieci anni fa, “È praticamente pronto”. Lo affermano fieri, con l’urgenza di quando erano ancora dei ventenni con i pantaloni troppo stretti per consentirgli erezioni senza inibizioni. L’inibizione però oggi ce l’hanno con il sound prodotto da queste parti. Se non gli si può parlare di evoluzione, perché erano troppo piccini quando hip hop, techno e derivati avevano un pubblico di nicchia ed eravamo in pochi a ballare l’Alligalli  salvano i 90 di Lory D e soci, oltre a tutta l’eurodisco o italodisco che dir si voglia. “Esatto. Tral’altro Archistar vuole essere un tributo a tutte queste correnti. Ci sono tutte quelle che hai elencato tu. Alla fine del pezzo lo senti l’arpeggio Italo!”.

Ma ci vuole attitudine anche per essere nostalgici? Il problema è che il confine con l’essere conservatori è davvero labile a questo punto. Eppure non tutte le speranze sembrano perse, anzi pare che le ragioni di fondo li proiettino verso il poi. “Il cambio di nome per noi anche psicologicamente, seppure si tratti di una lettera sola, è un modo per ricominciare da zero”. Che Bakunin sia con loro allora. Bisogna distruggere prima di ricostruire e tutto assume un senso che profuma di rivoluzione. Ben venga.

Stefano Cuzzocrea