Diario di un Tano: lettere dal Sudamerica (# 7)

di 2bePOP - 28 maggio 2013

Cartolina visivaCara Martina

Come va? Mi è giunta voce delle tue nuove amicizie di Rouen, di cui mi sono rallegrato.

Immagino che Parigi sia fredda ma piena di posti caldi pronti ad accogliere gente in cerca di leggerezza e calore, con aperitivi di vino e stuzzichini. Qualche giorno fa avevo voglia di essere avvolto in un cappottone blu o marrone chiaro e di sentire quel tepore invernale che senza il freddo di fuori non si può provare. Non è che non mi piaccia la temperatura pre-estiva di Buenos Aires, anzi. E’ che si ricerca sempre quel che non si ha. Così mi limito ad applicare al tempo un processo mentale che va bene per tutto quel che mi riguarda.

Sei andata al Mont Saint-Michel e da quelle parti con Melissa e Anna, immagino. Non è bello? Io l’anno scorso sono passato da Cancale e ho mangiato le ostriche. Erano buonissime, sembrava di avere il mare in bocca e negli occhi.

Qui, man mano che il tempo passa, alcune cose perdono il gusto della novità per diventare la normalità dentro cui ci si muove indifferenti. I colori degli autobus non mi colpiscono più e le strade dritte e infinite non mi sembrano più un’estensione dell’orizzonte esistenziale al di là del percettibile. Sono solo chilometri che mi separano da casa, dalla biblioteca, dall’appuntamento col mio nuovo amico Agustín.

A volte però quelle strade sono piene di microcosmi vaganti che il mio sguardo incrocia per un attimo. La velocità ideale per passare in mezzo alle cose, cogliendone la bellezza e bagnandocisi dentro, è quella della bicicletta, dice Ivan Illich. Ma anche quella degli autobus di giorno non è male. Non di notte, di notte volano. Nel percorso che mi porta a casa si incrociano formaggerie - le queserias - e farmacie ingannevoli: pensi di essere già vicino a casa e invece no, sono solo quelle di una catena, Farmacity, tutte uguali e tutte agli incroci.

Vivo sulla mia pelle il processo dell’estraneità su cui vorrei fare la tesi. Ora a dire il vero ne sto venendo fuori, anche se l’uscita definitiva non esiste per definizione. Mi abituo ai modi di relazionarsi socialmente, che sono un’esagerazione del cosiddetto calore mediterraneo. Mi era mancato, in questi ultimi anni a Parigi. Tutti amici, tutti fratelli, mi casa es tu casa, cualquier cosa llamame. Poi fanno i cazzi loro e non rispondono ai messaggi, ma sul momento ti regalano frammenti densi d’amicizia.

Tra le conoscenze rinnovate con cui studio, cammino e rido c’è Agustín. E’ un ragazzo bravo, non un bravo ragazzo: un amico maschio. All’inizio mi sembrava troppo facilone e di quelli che dicono cento cose e poi ne fanno mezza: e invece ne fa qualcuna in più. Abbiamo parlato tanto della difficoltà di uno straniero in una città come questa, che è bella ma vende illusioni di amicizia generalizzata per poi mostrare i denti di cerchi autosufficienti, storici e un po’ ottusi.

Buenos Aires, quando ci si abitua e la si guarda dal di dentro, offre tante situazioni assurde. L’altra volta ho mangiato in un ristorantino il cui padrone era raffigurato su un quadro in abiti mafiosi e con una ferita al petto. E poi te lo vedevi passare davanti impassibile, con espressione serissima e sguardo perso nel vuoto. Gauchos trapiantati in città, risate a più non posso.

Due sere fa invece ero a un concerto di un cantante basco ed era tutto un grande delirio. Si ballava dentro una sala grande e sotterranea, con due o tre maxi-ventilatori. E c’era il tipo della security che andava a richiamare i fumatori, facendogli spegnere la sigaretta. E la gente fumava di nascosto, come me. Sembrava di essere alle scuole elementari, ma da fumatori. Lui è stato il mio mito, combattente consapevole di una guerra persa in partenza. Alla fine lo conoscevano tutti, lo salutavano, lo abbracciavano, gli davano pacche sulle spalle. Capello corto, passo lento e sconfitto, vestito e cravatta, aria abbacchiata ma segretamente divertita. E faceva un contrasto stupendo e creativo con la gente a cui andava a rompere le palle, che era un po’ freak.

Io studio molto ma perdo anche molto tempo. Tra le cose a cui penso di più c’è la frammentarietà dell’esistenza che qualcosa riunisce a forza in un tutt’uno apparentemente coerente: tu sei libera di non crederci, ma alla diminuzione delle seghe fisiche compenso con quelle mentali. Psicanalisi selvaggia, sociologia da zulù. Poveri zulù, hanno perso la storia ma resistono in modi di dire dal sapore coloniale.

Ho iniziato a incontrare siciliani trapiantati quaggiù. Trasferte permanenti, temporaneo che diventa definitivo. Baffi di Capizzi (paese vicino Tortorici) in officine porteñe, stereotipi appropriati e riproposti in modi improbabili. Mi dico che quand’anche la ricerca dovesse andare male almeno mi sarò fatto quattro risate. Ma anche quattro pianti. Il primo che ho incontrato mi parlava un dialetto stranamente scandito, un po’ forzato e con inflessione ispanofono-argentina. E poi passava a un italiano con tutti gli ausiliari al contrario. E poi allo spagnolo, e poi tutto assieme. La lingua che parlava più naturalmente era lo spagnolo, sebbene tirasse fuori parole di un dialetto p-e-r-f-e-t-t-o e decontestualizzato. Parlava un po’ come Leandro, era di Rosolini. “Y la gente venía para hacer la cosecha… Com’è che se dice? Ah, sì, ‘u frummientu”. Aveva lavorato con un ebreo, a cui come “a tutti gli ebrei piacevano le donne. Tre ne aveva (Como a todo judío le gustavan las mujeres. Tres tenía!).“Poi cci dissi vafanculu e mmi nni ìiu p’ ‘i cazzi mè”. Era un po’ mitomane e sosteneva che quando torna in Sicilia va passeggio con Berlusconi. Ma anche Crocetta è amico suo. Sì, la frocitudine non è il massimo, ma di questi tempi impera, per cui bisogna adattarsi.

Se ora avessi voglia di piangere ti direi del signore di Ragusa che non è mai tornato indietro, perché non aveva soldi, ma che da google street view ogni tanto guarda la porta di casa sua, legnosa e immutata. Lui, Pino, mi parla in un dialetto strettissimo, a’ carcarara. Oppure in un porteño che più porteño non si può. Gente buona, muratori anziani, ultimi testimoni di un’esperienza migratoria in via d’estinzione. Pensano che debba scrivere un libro. Io glielo dico che no, devo scrivere solo una tesi e magari cambio pure soggetto. Ma loro testimoniano una storia, e a volte sono molto seri. Altre volte no, per niente.

Ho incontrato un signore di Sant’Angelo di Brolo e una signora di Capo d’Orlando. Lui è arrivato qui per fermarsi due anni e c’è rimasto tutta la vita. Lei è arrivata dopo, e siccome era italiana al padre hanno chiesto la sua mano in tre. ‘Na vota si facìa accussì, ora ‘i tempi canciaru. Prima ti parlano benissimo della Sicilia, del fatto che non l’hanno dimenticata mai, che è il loro paese, dell’emozione di quando sono tornati dopo trent’anni. Ma a scavare bene e a passare allo spagnolo si scopre pure che sono arrivati “all’America cu ‘i scarp’ ‘i pezza”. Ma chi con le scarpe di pezza, l’America o loro? Tutt’e due. Sono partiti appena prima che il boom economico cambiasse profondamente l’Italia tutta e forse hanno preso un treno che col senno di poi avrebbero perso volentieri. Un treno che era una nave grande, passaggio intermedio tra un paesino e una città come Buenos Aires, dove per la prima volta vedevano africani, giapponesi, calabresi. Si scopre, scavando un po’, che quando tornano si sentono un po’ a disagio. Che le signore che vanno alla messa, le siciliane, sono tutte tirate e sfoggiano pellicce da morti di fame arricchiti e volgari. E loro dicono che “non è che noi non ce l’abbiamo, pure noi ce l’abbiamo. Solo che non la vogliamo tirare fuori sempre”. Si sentono giudicati come i cugini poveri. La manera de pensar è differente, sono partiti che il bagno era fuori e al ritorno ne hanno trovati tre, tutti dentro.

Ritornando a me. In un’altra lingua capita che pensieri ed emozioni non riescano a trasformarsi in parole che poi diventano frasi, che poi diventano discorsi. Capita nella propria lingua, figurati in un’altra. Ma a volte si può fare l’economia del linguaggio.

Scrivo molte mail a molti professori. Alcuni non rispondono, altri sì. Oggi è sabato e ho l’impressioni di aver trovato la mia strada nella teoria sociologica: la teoria dell’azione, la logica delle situazioni, l’interazionismo che si concentra più sul micro che sul macro. E a me piacciono i dettagli, che mi sembrano frammenti in cui a volte si condensano e proiettano schemi più grandi, idee astratte e concezioni generali. Per esempio in una frase di Mauro, l’altro amico mio, mi sembra di vedere l’amicizia per come si manifesta qui in Argentina. Oppure in un concerto mi capita che una canzone diventi il simbolo che racchiuda un’esperienza intera. Ma sarà sicuramente un’illusione che qualcuno smentirà. O allora è già stato detto tutto.

La società è molto sessualizzata, seppur in una maniera meno percettibile di quanto ci si aspetti. I miei amici più aperti hanno altri amici maschi e le ragazze sono spigliatissime, ma ti vedono come un arrapato che ci vuole provare e si comportano di conseguenza. Io non so se ridere o piangere, nel dubbio faccio entrambe le cose.

Ho ancora i funghi sulle spalle, lunedì andrò dal dermatologo. Qui la sanità è pubblica e per una visita io, che sono uno sporco straniero, pago solo trenta pesos, cinque euro.

Buenos Aires è piena zeppa di ebrei, tipo New York. Per restare negli stereotipi, un mesetto fa un ragazzo m’ha proposto un ingresso nel mercato nero dell’euro: vos me hacés una transferencia y yo te pago más del cambio official, tu mi fai un versamento e io ti pago più del cambio ufficiale. Hanno paura di un’altra crisi e preferiscono avere soldi stranieri. Io all’inizio non avevo colto, poi me l’ha spiegato bene. E quando m’ha detto che era ebreo mi aspettavo che da dietro l’angolo spuntassero i fratelli Cohen e Woody Allen con tanto di videocamera.

La città è piena di bar bellissimi, con dentro musica e legno. C’è una Buenos Aires stranamente alternativa e nostalgica, che cerca il futuro nel passato e lo trova nel tango.

Sono stato in una galleria d’arte contemporanea molto bella dove lavora un mio amico, Javi. Ora, questi posti, me li sto segnando: per tornarci, così diventano punti fissi a cui ancorare un’identità temporanea.

Entro il diciassette dicembre dovrò uscire dall’Argentina per rinnovare il visa. Credo che andrò un fine settimana in Uruguay, Agustín dice che ne vale la pena.

Per il resto continuo a parlare alla radio di Mariano ogni martedì e ho un accento re-tano. Ma ogni tanto divento re-porteño e apro le vocali diversamente, al costo di rubare identità altrui.

Così scorre il tempo a Monte Castro, in questa casa da cui me ne andrò entro fine mese per approdare ad altri e più movimentati porti.

Spero che a Parigi vada tutto bene, che l’inverno non sia troppo duro e che le routine mostrino più gli aspetti dolci e carezzevoli che quelli stanchi, vuoti, ripetitivi e indifferenti. Da parte mia cercherò di prendere appunti in quei momenti non rari in cui rido con la pancia. Ma temo che il corpo si presterà meno alla penna, troppo abituata a stati emotivi più ordinati.

Un abbraccio,

Claudio