Diario di un Tano: lettere dal Sudamerica (#4)
di 2bePOP - 30 aprile 2013
Ituzaingó, 26 settembre 2012, un giorno prima del mio compleanno.
…Prezzi altini ma non altissimi, e dipende da cosa. Ho trovato casa, la situazione sembra buona. Vado a vivere in un quartiere che si chiama Floresta, con una sociologa (o studentessa di sociologia, non so) e una professoressa di danza e teatro, che è la proprietaria ed è pure bona. Pagherò intorno ai duecentodieci euro, spese incluse e stanza singola. Lei è una delle persone che di primo acchito mi sono state più simpatiche in vita mia. Tutto pare andare per il meglio, ed è iniziata pure la primavera.
Domani o venerdì farò le pizze in casa di Mariano, per festeggiare il compleanno mio e di Antonio, il barbiere pittoresco e burbero che ogni mattina mi strilla “Qué pasa italico?“. Oggi abbiamo mangiato la polenta, e mi sembrava di stare tra gente del Sud che mangia polenta per un’abitudine vecchia di cent’anni e passa.
Ora, visto che ho trovato casa e non sono più obbligato ai pellegrinaggi quotidiani, cazzeggio e scrivo mail. Qua, di aneddoti e atmosfere raccontabili ce n’è in abbondanza, nel bene e nel male. Storie di pistole in casa e di desaparecidos a un km da casa, o di saloni da barbieri pieni di fumo e tango. Esagero un po’ col romanticismo, mi piace farmi prendere la mano.
Si parla molto di politica, per fortuna. La Kirchner la chiamano la presidenta e il personalismo mi sembra forte. Della destra non si vede molto, l’opposizione debole. Il panorama della stampa, almeno stando a quanto dice Mariano, è più desolante di quello italiano.
Miriam, che è la mamma di Mariano, mi parla un italiano che innervosisce il figlio, che infatti le dice : y hablale en castellano, mama! In castesciano, come dicono qua. Perché tutte le ll diventano una via di mezzo tra sch e scg: sciò per dire yo, bottescia per dire bottella e via dicendo. E però un enologo che è venuto ad assaggiare i vini di Antonio, il barbiere di Siviglia, diceva bottella, alla spagnola. Sembrava appartenere a una borghesia ingessata e filoeuropea. Però era uno simpatico: vecchio, ironico, dai modi distinti e con mezzo corpo semiparalizzato.
Ieri mi sono fatto tagliare i capelli da Antonio, che si innervosiva in maniera alquanto buffa – in realtà faceva finta – davanti alla mia preoccupazione per il taglio che mi avrebbe fatto. Io non volevo essere rompicazzo, ma non volevo manco finire come Sergio – Serjo -, un elettricista che sta lì al salone a perdere le giornate da almeno una ventina d’anni e il cui taglio non era proprio il più bello del Sudamerica.
Il salone di Antonio sembra uno di quei teatrini dove ci sono tanti personaggi, tutti maschi e divertenti, che si ritrovano a recitare la vita con ironia e distacco. Sembra che stiano lì come se dovessero andar via da un momento all’altro, come se quella fosse la parte ludica e rilassata della loro vita; come se non fosse la parte reale, ché lì si sta per gioco, senza prendersi troppo sul serio. E allora ognuno si ritaglia il suo personaggio, dal bell’Antonio – che in realtà tanto bello non è – che s’inalbera per un nonnulla all’elettricista che passa e beve il mate; a Daniel, un signore sulla settantina che ha fatto finta di offendersi perché mi presentavo per la seconda volta, dimenticandomi di una prima, calorosa e ironica stretta di mano. Io in questo teatrino fatto di grasse risate e finti insulti sono una comparsa che attira l’attenzione per l’accento prontamente imitato – Buonassssera tano! – e per il tabacco da rollare, che qua non si usa tanto. Le sigarette costano poco e quelli che se le fanno – que se las arman, come in siciliano – a mano, le sigarette, sono pochi. Così abbondano le battute sui porritos che mi farei.
Qualche giorno fa la radio di Mariano trasmetteva da un centro sportivo grande, piano e verde che trent’anni fa era un centro clandestino in cui imprigionavano quelli che poi sarebbero divenuti tristemente famosi come i desaparecidos.
Si pensa al fascismo come una cosa dei nonni e si litiga sui lasciti di quel periodo, sul clericofascismo che ne seguì e sulle trasformazioni di quel periodo. Ma sono eventi relativamente distanti. Così ci si ritrova a sorprendersi per il fatto che qui, tutte quelle cose, seppur in forme molto distinte e dentro una storia diversa, siano successe meno di trent’anni fa. L’ultima dittatura nell’83, un anno prima che nascesse Mariano.
Da fuori, da turista, quest’Argentina pare un paese anche ricco, moderno, vivace e grande. E lo è, in molte parti.
La polizia è corrotta, e io non pensavo. Vabbè che la violenza è alla base della sua esistenza, e lo diceva già Walter Benjamin. Ma ho sentito storie che fanno arrizzari ‘i carni, come diciamo a Cambridge: furti di auto organizzati dai marescialli, ammazzatine varie, ragazzini spariti perché non volevano fare i criminali per conto terzi.
A parte questo, il primo impatto è bello e interessante. I luoghi che ho visto finora erano quasi tutti piacevolmente chiassosi, vibravano nell’aria vivacità ed esuberanza.
Una cosa mi ha colpito molto, e riguarda i trasporti pubblici. Molte fermate dell’autobus sono indicate da un cartoncino di venti centimetri e niente più, altre da un palo della luce, come quelle nei quartieri esclusivamente residenziali. Meno male che Mariano c’è, e che mi indica dove alzare la mano per fermare autisti frettolosi e distratti che passano oltre senza imbarcarti. Ma la cosa che m’ha colpito è un’altra. Due o tre giorni fa, mentre giravo per Buenos Aires, impiegando un’ora per arrivare da una parte all’altra della città ho visto una fila indiana ordinata e silenziosa su un marciapiede. Non capivo cosa fosse, visto che di fronte al non c’era nulla e alla sua sinistra solo un palo. Lui, il primo della coda, guardava nel vuoto, come gli altri, e nei paraggi non c’erano ospedali psichiatrici né caserme. Io, interdetto, volevo chiedere cosa facessero lì, fermi, così, nel bel mezzo della città. Ma poi non ho avuto il coraggio, e l’arrivo dell’autobus m’ha dato la risposta. Lo stavano aspettando, rispettando l’ordine della coda. Poi, al suo arrivo, salivano ordinatamente e silenziosamente, uno per uno, facendo scomparire dentro quel rettangolo colorato quella lunga fila umana. E si stupiscono del mio stupore, giustamente.
In Argentina hanno tutti la testa fottuta per il calcio, e io andrò a vivere accanto a uno dei tanti stadi della città, quello degli All Boys. Mariano e i suoi amici tifano per il Boca, e quando ho detto che non sapevo per chi avrei tifato m’hanno guardato malissimo. “No te chiediamo niente, Claudio, no te chiediamo niente in cambio. Pero almeno questo devi concederselo, deve tifare per il Boca”, con quella b che è una via di mezzo tra la v e la b: la boca e il vaso, senza differenza alcuna.
La sera prima però, quando gli avevo chiesto per chi tifasse, aveva assunto un atteggiamento distaccato e superiore: “a me nun me ne frega ttanto, non mi vado a scanare per una partitta. Siiii – ritirando un po’ la testa all’indietro e facendo una smorfia mezzo schifata – me guardo le partite, la classifica, però nun me interesa”. Ovviamente è un tifoso sfegatato.
Molte ragazze sono belle, more e con la faccia lievemente tondeggiante.
Tantissimi ragazzi hanno i capelli lunghi, e io ancora non mi sono abituato. Stasera c’è una milonga in un bar storico di Castelar, con tango e colori scuri, marroni e densi, e specchi vecchi e belli. La gente ride un po’ per il mio accento e il mio modo di parlare, ma rideranno di più e con più gusto quando parlerò meglio e gli errori saranno isolati e riconoscibili, e se va bene creativi. Quando sarò meno straniero, quindi più straniero ancora.
Dell’Argentina si dice che sia piena di psicanalisti, molti lacaniani. Anzi, di Buenos Aires. A me avevano detto che pure i tassisti vanno dallo psi, e ci si chiede perché non dovrebbero andarci.
La mamma di Mariano sembra un personaggio da Carramba, uno di quelli che Matilde imita alla perfezione. E parla proprio in quel modo, davvero.
Ho parlato solo di me e di quello che sto facendo qui, ma tu sarai indulgente e non me ne vorrai per questa piccola mania da cronista. Tu come stai? Fai i biglietti presto, ti aspetto. Sai, la tua salsiccia – che qua si chiama salciccia – ha sbancato, soprattutto per il finocchietto selvatico. La pancetta invece era tutta grasso e non si riusciva a tagliare, e il padre di Mariano m’ha detto che un giorno me la farà assaggiare lui, la pancetta buona. Io gli ho detto che lui non sa manco cosa sia, la pancetta buona. E poi giù a ridere e a strillare (In realtà non si strilla poi così tanto, sono io che esagero e sottolineo un aspetto che fa tanto commedia d’oltreoceano).
Oggi ho visto un fucile argentino che Antonio tiene in casa, di quelli usati nella guerra delle Malvinas. Era grosso e nero, e lui lo mostrava quasi con fierezza, tirando fuori un aspetto violento e nascosto che non immaginavo. Lui è abituato alle armi: gira sempre con una pistola e in casa ne ha sei, anche se da collezione. Credo che a Mariano questa cosa non piaccia per niente. Me le ha mostrate tutte e m’ha fatto vedere il suo brevetto da istruttore di tiro a segno. “Ma quindi quando m’hai tagliato i capelli, oggi pomeriggio, avevi una pistola addosso?” “E siiiii, siiii, siiemepre ce l’ho”, come se avessi fatto la domanda più idiota del mondo. Poi m’ha detto che l’ha usata una volta sola, mentre una macchina gli tagliava la strada per rapinarlo: ha sparato in aria e poi ha tremato tutto il giorno.
Non leggo ancora in spagnolo, salvo i giornali e qualcos’altro. Ho scoperto un argentino, Saer, che è troppo importante per le mie ricerche e forse anche per la mia vita, sicché non posso concedermi il lusso di usarlo “per imparare la lingua”. Così lo leggo in francese, visto che in italiano il libro che sto leggendo non l’hanno tradotto.
Ora vado, Antonio sta per finire la siesta e io dovrò andare dal verdurero a comprare gli ingredienti per fare le pizze.
Un abbraccio stretto e caldo,
Claudio