Diario di un Tano: lettere dal Sudamerica (#3)

di 2bePOP - 23 aprile 2013

En venta-123 settembre, ore 18.00

Caro Antonio,

La ricerca della casa procede senza entusiasmo. Finora ho visto un paio di tuguri, l’ultimo cinque minuti fa, prima di entrare in questo internet point che dà su una strada grigia, immensa e stranamente calda. Era una stanza buia e angusta, che questa tipa voleva condividere in tre. M’ha pure chiesto mille pesos, lasciamo perdere. Io l’ho guardata con aria perplessa dieci secondi e poi mi sono congedato.

Giulia, la tua amica a cui m’hai detto di scrivere, l’ho contatta ieri. M’ha proposto di vederci e m’ha detto di stare attento ai ladri. Mi sa che sarà difficile, perché il ladro sono io e perché Mariano vive a quaranta minuti dalla capital, in un posto in cui i  trasporti non sono proprio eccellenti.

Vorrei dirti tante cose di Buenos Aires, ma come immaginerai ancora non ne so nulla. In compenso conosco Castelar, questa cittadina alla periferia di Buenos Aires, con i bar che frequenta Mariano, la radio in cui lavora, i suoi amici che sono spontaneamente calorosi e la sua famiglia che mi ha accolto benissimo. Vedo cose a metà strada tra la ricchezza e la povertà. L’impressione potrebbe essere quella di un viaggio nel tempo a ritroso di venti, trent’anni, ma sarebbe un pensiero ingannevole, etnocentrico e da filosofia della storia che vede il tempo come lineare, vuoto e progressivo.

In casa ogni tanto si parla di storie d’immigrazione, anche perché la famiglia di Mariano è tutta di origine italiana. I nonni emigrarono dall’Istria e dalle Marche negli anni quaranta. Prima italiani, poi jugoslavi, e prima di diventare croati sono venuti a fare i tanos oltreoceano. Qui li chiamano tanos, gli italiani. Io sono el tano, come mio padre se vivesse al Nord. E’ attorno alla tavola, dove si urla senza litigare e si beve vino rosso fatto nel cortile, che di queste vicende familiari e si fanno viaggi nella storia e nella geografia. I protagonisti di queste epopee immaginate sono vecchi immigrati poveri del nord, la cui storia è stata sbiadita da quella più lucente dei cugini nord-americani e dalla distrazione generalizzata. Sono andati lontano e ci sono rimasti, loro. Quelli del Nord operai, lavoratori e chiusi di mente, dice Antonio el peluquero. Quelli del Sud più furbi, svelti, traffichini e con mentalità imprenditoriale.

Io ogni tanto mi immagino i primi arrivati, che da Genova arrivavano alla Boca, che ora è un quartiere malfamato ma turistico, con case belle e colorate e prima era il porto di Buenos Aires. I tifosi del Boca Juniors li chiamano los xeneizes, i genovesi. Mariano dice che somiglia un po’ ai quartieri spagnoli di Napoli. Ma lui dei quartieri spagnoli avrà avuto un’impressione troppo parziale e condizionata, includendoli in un tutto – l’Europa – che ne conteneva un altro – l’Italia. Mi hanno raccontato l’origine storica di tutti questi colori: gli immigrati genovesi erano poveri, forse anche tirchi, e non avevano soldi per comprare la vernice. Così prendevano i resti di quelle utilizzate per le barche e venivano fuori queste case variopinte.

Ritornando a me e alla lingua, c’è tanto lavoro da fare. A volte capisco molte cose, a volte nulla. Parlano diversamente dagli spagnoli e anche dagli altri latinoamericani. A volte ho l’impressione che l’accento sia una via di mezzo tra il marchigiano e il messinese.

Le distanze sono molto lunghe, un’ora e mezza per arrivare da un posto all’altro.

In giro c’è tanto azzurro e tanto bianco. E anche tanto blu.

Comunque per la casa sono un po’ preuccupato, i prezzi sono altini e il quartiere in cui si va a vivere è molto importante, viste le distanze.

Augh,Claudio

P.S. Oggi qualche punta di malinconia. Mia nonna fa ottant’anni e la famiglia va a mangiare al ristorante. E mio fratello il due si laurea, e io volevo essere a Palermo per dire quanto la laurea non conta un cazzo. E vabbè.