Diario di un Tano: lettere dal Sudamerica (#1 & #2)

di 2bePOP - 17 aprile 2013

MaradonaAlice cara,

Spero che tu stia bene e che l’aria settembrina in cui immagino avvolta Palermo non sia troppo malinconica.

Io sono arrivato da qualche giorno a Buenos Aires, sto bene.

Ho scritto un messaggio a Martina in cui racconto di questi primi giorni, di persone e cose che si sono presentate ai miei occhi e anche di alcuni stati emotivi. Sono delle impressioni, scritte di fretta, come un flusso disordinato e a volte anti-sintattico, buttato giù con una tastiera un po’ diversa dalla nostra; come se dovessi lasciare il computer da un momento all’altro. E lo dovevo lasciare, infatti.

Ora, siccome sono racconti che avrei fatto volentieri e allo stesso modo agli amici cari, eccole qui, queste Cronachette Porteñe.

 

Pizza, promozione

Cara Martina,

Scusami per non averti risposto prima, è che raramente ho un po’ di tempo libero per isolarmi dal mondo circostante e stare davanti al computer. Dovevo scrivere prima di prendere l’aereo, ma ormai il momento della partenza è cosa vecchia e ci sono altri pensieri da pensar.

In questo momento sono davanti al computer di Mariano, la prima persona ad avermi aperto porta e braccia in Argentina, con suo padre a due metri distanza a lavare bottiglie per un vino urbano che fa ormai da tanti anni.

Mi chiedi come va: va bene, cerco casa e ieri ho fatto un giro all’università, che era mezza occupata e pieni di striscioni e di ragazzi che stavano lì a fa’ i comunisti.

La gente è molto socievole, ma quando si parla velocemente io non capisco un cazzo. L’atmosfera universitaria comunque ti fa sentire sempre un po’ a casa, ovunque.

Ieri è stato il mio primo giorno a Buenos Aires, che è molto grande.

Mi guardo attorno, osservo tutto, come un bambino. In giro c’è tanto azzurro, spesso accanto al bianco: nelle insegne dei negozi, nelle banche, nei taxi, nelle auto in generale, un po’ ovunque. Un azzurro un po’ scolorito, come vecchio.

Al bar bevono tutti birre da un litro, che costano meno e sono più conviviali.

Qui da Mariano, rispetto alla capital, è tutto diverso. Lui vive in periferia, a quaranta minuti dal centro. E’ una periferia abbastanza autonoma, che vive di vita propria. A la capital non ci va mai, se non per fare qualcosa di mirato, pratiche burocratiche o cose del genere. Anche se è abitata da centomila abitanti, le logiche di questa cittadina sono simili a quelle da paese: giri di amici storici, bar abituali, dinamiche poco anonime. La prima impressione è che ci sia il meglio di un paese con in più la linfa vitale della città. E’ solo un’impressione, e forse ha poco a che vedere con la realtà.

Lui comunque lo sto conoscendo adesso, visto che l’unica volta che ci eravamo incrociati era stata quella giornata di quattro anni fa, in un ostello del centro storico di Napoli. E’ un ragazzo premurosissimo, forse troppo. Sono stato accolto in maniera eccellente, ma si occupa e preoccupa talmente tanto di me, mi accoglie talmente tanto che mi lascia fuori e mi fa sentire straniero. Quel che sono, d’altra parte. Ogni volta che brindiamo, in casa o fuori, mi dice “benvenuto!”, e a ogni “benvenuto!” mi sento spinto un po’ più in là. Mi sento allo stesso tempo dentro e fuori, come in un paesino che non è il tuo. Si sta bene. Mariano, al bar, fa un po’ il tipo che parla italiano, l’uomo di mondo, e ha la pretesa di spiegarmi ogni cosa nei minimi dettagli. Ma non con passione, solo col fare un po’ professorale di quello che sa, che conosce la situazione. E’ molto carino, ma la sua è una pretesa assurda, che arriva a volerti spiegare cose che capisci benissimo, come se ci volesse un filtro di fronte a qualsiasi micro-evento. Dovresti vedere le sue facce. Adesso pare che ne stia facendo un ritratto negativo, invece è un po’ buffo.

Sua madre si preoccupa di me, mi tratta come se mi conoscesse da tanto tempo e parla un misto tra italiano e spagnolo che fa tanto film da meridionali in Argentina. Lei mi fa sentire a casa, è simpatica e premurosa.

Suo padre è burbero, chiassoso, scherza molto e fa camurrìa. Fa il barbiere, va in giro con canottiere attillate e pancioni parati, è un tipaccio. Mi pare che Mariano sia un po’ insofferente verso la sua famiglia. E poi si preoccupa di fare figuracce, mentre io in queste situazioni mi trovo completamente a mio agio.

In giro tutti hanno i capelli lunghi, è una cosa incredibile. Non pensavo fosse così. Ci sarà almeno un 30 per cento di uomini con el pelo largo.

Dicevo di Castelar, il paese di Mariano, e delle dinamiche da paese. Mi sa che sono poco abituati agli stranieri. Quando parli in maniera un po’ maccheronica non ti capiscono, come la gente abituata a un tipo di espressione e una tonalità ben precisi, che si sente spiazzata dalle deviazioni da quel modello.

L’aspetto bello e assurdo di questi giorni è l’essere di colpo dentro qualcosa, dentro alcune abitudini, dentro dei gruppi, dentro delle serate, dentro dinamiche e strutture che ti pre-esistono e che continueranno a esistere dopo il tuo passaggio. Bisognerebbe fare foto.

Non ho visto tamaraggine, ma ho davvero un’immagine parzialissima. Sono tutti mezzo alternativi che guardano partite di calcio dalla mattina alla sera. Con la gente in strada si scherza, si urla abbastanza, tra autisti, baristi e nonsoccheisti.

Per quanto riguarda la ricerca di una casa, invece, pare non si faccia la colocation per come la intendiamo noi. Vedo molti annunci di pensioncine, più che un inquilino ti trattano come un cliente a cui si offrono tutti i servizi del mondo. Ma si usa così, è cosa normale, non lo fanno per fregarti. Ieri ho visto una stanza in una pensione economica, non era male. Io però voglio una casa normale, non una pensione.

Quando sono arrivato all’aeroporto, dopo 15 ore di viaggio, era tutto un po’ onirico, la campagna era rada, c’erano alberi qua e là immersi in un verde acceso ma che col grigio del cielo sembrava sporco. C’era anche un po’ di incuria: capannoni di lamiera raccattata qua e là, sacchetti di plastica sparsi. E poi salici, e prati, e cavalli.

Queste le cose che mi vengono in mente adesso, appena sveglio, pensieri fugaci buttati lì prima di iniziare la giornata. Fra poco probabilmente andrò con Mariano in un posto da cui oggi trasmetteranno la trasmissione della radio. Perché c’è la radio, spezzone di vita che avevamo intravisto da facebook. E c’è il gruppo di amici della radio.

Già passo dal bar in cui va abitualmente, anche da solo, e i ragazzi che lavorano lì tutti a fare gli amici : Hola claudio, que pasa, todo bien, que tal ? Sorridono a 32 denti, ti stringono la mano, ti danno un bacio. Qua ci si saluta con un solo bacio sulla guancia destra.

Quindi sto bene. E però mi sembra una di quele situazioni – questa di Castelar – in cui non mi smarcherò mai della mia estraneità. Forse Mariano contribuisce un po’ a far sì che sia così. Ma non lo sa, altrimenti non lo farebbe. Lui vuole mostrarmi “l’Argentina”.

Non mi era mai capitato di considerarmi come un europeo in un senso così concreto. Nei discorsi degli altri l’Europa è molto presente, e la relazione è travagliata. Fascino da un lato, fastidio post-coloniale dall’altro.

Io, che mi sono sempre pensato come anticolonialista e che lo sono, nei discorsi con Mariano vengo buttato a forza nel mio abito di europeo. Non perché lui dica qualcosa di esplicito in questo senso, solo perché si constata un dato di fatto, un’appartenenza decisa da nessuno. Lui prende addirittura delle precauzioni, quando parla. Ad ogni modo, l’estraneità non sei tu a deciderla, sono gli altri.

Ho scritto un bel po’, ma come se dovessi staccare dopo due secondi. Ora vado a fare il milione di cose che mi attende.

 

Un abbraccio,

Claudio