Death Grips a Roma, il live report
di 2bePOP - 22 maggio 2013
La ratio è questa. La musica serve a colmare i vuoti
. Se per un musicista è una sorta di rimedio alla follia, per noi altri, che ci troviamo part time dall’altra parte del palco, è un modo per capire cosa ci manca, altrimenti non saremmo lì alla ricerca di emozioni. Detto questo passiamo al live dei Death Grips a Roma. Senza il preambolo, però, un report non avrebbe senso ma solo titoli di canzoni e dati sugli spettatori, con conseguenti smentite da parte della questura.
È lunedì. Chi si aspettava 300 persone non ha mai vissuto questo documentario in atto intitolato “La Capitale ai tempi della crisi”. Anzi, a dire il vero, ci sono stati lunedì peggiori al Circolo degli Artisti. Sarà che la band californiana, istrionica e transtilistica, riesce a raccogliere adepti del rap, rockettari open mind, ondeggiatori da dubstep e pithforkiani in divisa American Apparel vs. Pifebo di ordinanza. Meglio così. Non c’è cosa più fastidiosa che accogliere una band emergente di quelle osannate all’estero in un numero pari a quello di due squadre di calcio, con panchina lunga alla Murigno però. Ed il primo vuoto è colmato, insomma, almeno a metà sala.
Il secondo non dipende dalla platea. Il terzetto si presenta privo di un’unità. Diciamo che ha poca batteria e in effetti la durata della conversazione con il pubblico è più breve e meno intensa del previsto. C’è linea però, quella sì. Si stabilisce subito un contatto fatto di rabbia e tensione, rabbia e tensione che uniscono anziché dividere. In un momento storico particolare, un frangente temporale nel quale ogni canzone pare la sigla di coda, loro riescono a tenere desta l’attenzione, a dare una colonna sonora che potrebbe essere la sigla di testa di questo ipotetico film sulle rivolte in corso d’opera magari. Il paradosso però è che il batterista Zach Hill abbia marinato il tour proprio per i suoi impegni cinematografici; che sia un segno del destino? La speranza è l’ultima a morire e siamo più o meno tutti in coma, se non in agonia, almeno fino all’inizio del live.
Ecco. I Death Grips sono di buon auspicio. Dall’invecchiamento dei Public Enemy, dallo scioglimento dei Rage Against The Machine e dall’inizio della sedentarietà malcelata di Tricky era emersa una specie di criptonite musicale inficiante per tutti gli aspiranti superman rivoluzionari. Senza più santi né eroi, in sostanza. Qualcuno si era rifugiato nella playstation di Manu Chao, mentre i più conservatori erano immobilizzati di fronte ai Modena e ai redivivi 99, appigliandosi ad una damigiana da 5 litri per non essere sballottati a bordo dell’inesorabile treno per Babylon. Ironie a parte, avevamo bisogno di colmare più vuoti del previsto.
Dunque Stefan “MC Ride” Burnett e Andy “Flatlander” Morin ci sono venuti in soccorso, proprio mentre uno strano freddo di fine maggio stava per smaterializzare l’unica nostra certezza rimasta in piedi: il surriscaldamento del pianeta e l’ipotesi di una fine del mondo sempre più vicina. E invece esistono ancora le mezze stagioni.
Sì, perché il loro sound non è tanto nuovo da essere rivoluzionario ma neppure tanto retrò da essere involuzione nostalgica. Dalle casse esce un’energia che non è amalgama, non è dance, non è rock ma neppure la loro negazione: nulla si distrugge e tutto si trasforma come natura vuole. Bassi a palla. Eppure paradossalmente non si ha l’impressione di assistere ad un live set di elettronica, sebbene a parte l’m.c. non ci sia altro oltre ad un pc e qualche macchinario. Non si è difronte alla sagra dell’ovvio, dunque, e già questo può bastare.
Che poi il duo scada un tantino nella monotonia è qualcosa che, quindi, gli si può anche perdonare. Burnett, con indosso la maglietta di Tricky, ovvero il torso nudo di rito, urla e rappa, rappa e urla, compensando lo stara-abusato stile con movenze che gli fanno meritare un bel 10 in presenza scenica. Ma già si sapeva. Andy pigia tasti, da buon astronauta, pure se la navicella pare mantenere troppo spesso la stessa rotta e spesso giri a vuoto intorno al rosso Marte, per Giove. Completano il giro astrale in meno di un’ora e, tirando le somme, il viaggio non vale il costo del biglietto.
Restano dei vuoti da colmare, tutto qui. Eppure il bicchiere è mezzo pieno. Forse abbiamo dimenticato troppo in fretta lo slogan che ha forgiato il punk dal quale ancora attingiamo sia noi che loro: quel ”sii ragionevole, chiedi l’impossibile” messo sulla barra e mai più cliccato. Anzi i Death Grips forse lo tengono sul desktop come screensaver e vanno a casa col malloppo. Del resto i vuoti vanno colmati, Tricky deambula ancora sui palchi e Chuck D ha chiesto un’elemosina milionaria per il nuovo disco dei Public Enemy. E non venitemi a chiedere cosa c’entrino ste altre faccende, affinate lo sguardo e l’udito. Anche se così facendo constanterete che il vuoto sembri ormai una voragine. Se l’importante non è la caduta ma l’atterraggio non resta che sperare bene…
Stefano Cuzzocrea