#tafferugli: c’è chi se la prende con Brunori sull’altare, mentre lo zipangulo-rock, ovvero il nuovo cantautorato è condannato a non avere la carta verde
di Stefano Cuzzocrea - 14 gennaio 2014
A che serve il cantautorato italiano? Si tratta di un interrogativo ambiguo: è un po’ come chiedersi a cosa serva il 68. Bisogna coniugare tutto all’imperfetto e magari spiegare il perché anche a chi di modi indicativi non ne capisce molto.
La questione è annosa. Lo spunto per trattarne oggi, ad inizio 2014, viene dal linciaggio che Vice e i suoi derivati hanno incitato contro Dario Brunori e la sua premiata ditta. Un ragionamento che non sarebbe poi tanto assurdo e inutile se non si fosse clamorosamente sbagliato il bersaglio. Forse è lui, Dario, l’unico innocente di questa orda di cantautori: molti altri, che militavano in progetti rock, post-rock o indie (se proprio si deve mettere il dito nella piaga e usare un dicitura errata e ormai fuori tempo massimo) hanno fiutato l’affare e deviato traiettoria, creando confusione. Se lui non ha mai avuto velleità da personaggio alternativo e ha fatto qualche euro, una caterva di emulatori ha lasciato le fila dell’alternativismo per inseguire le orme della Sas e il sogno di essere famosi. Brunori era un metallaro, certo, ma ai tempi del liceo, gli altri hanno avuto un cambio repentino ma sono intoccabili perché l’Italia è un paesello e non si può parlare male degli amici; non a caso per una band indigena raggiungere un sei o un sette nelle recensioni sulla stampa specializzata italiana è quasi dovuto.
La confusione, poi, viene proprio da questo circuito che crea, guada caso, un cortocircuito. Perché, mentre nei 90 ogni tipologia musicale aveva il suo locale di riferimento in varie città, oggi Dente, i Club Dogo, i Linea 77 e AzealiaBanks suonano nello stesso posto. È la logica del profitto o la trasversalità dei luoghi, del pubblico e, prima ancora, magari della politica. Se poi un cantautore, come molti colleghi di Brunori, viene dal circuito indie (cazzo, l’ho ridetto, vergogna) conserverà credibilità, indirizzi e amicizie, e continuerà, a maggior ragione, a battere gli stessi luoghi per suonare e promuovere la propria musica.Eppure, lontano dagli scantinati, il processo di riappropriazione delle radici lo ha iniziato Morgan attraverso la cattedra di X-Factror, anche se nessuno gli riconoscerà questo primato, come nessuno, tra l’altro, ribadirà l’importanza dei suoi Bluvertigo nell’aver rispolverato un sound anni 80 tornato in auge un decennio dopo, ciononostante sono stati uno dei pochi gruppi a rischiare di essere promossi all’estero, anticipando altre deficienze di sistema e una mancanza di audacia dei discografici italiani più propensi a raccogliere che a seminare.
La colpa, tuttavia, non è solo dell’ingordigia: è il nazionalismo che si è tradotto in un ventennio di destra al governo, e non viceversa, ad aver fatto danni. Se negli anni 90 si è iniziato uno studio spontaneo della morfologia che ha portato la lingua italiana a confrontarsi col rap, col reggae e prima ancora col punk e col rock, 15 anni dopo si è tornati alla lingua inglese. Ricordo di come Andrea Pomini e i suoi Disco Drive abbiano speso estenuanti riunioni interne sull’opportunità di comporre in Italiano o no, prima di esordire; con chi volevano confrontarsi, direttamente col pubblico che gli stava già vicino tutti i giorni o con il mondo intero? In molti, negli anni zero, hanno scelto di superare i confini, complici l’abolizione di molte frontiere, per via della nuova Unione Europea, e il diffondersi del mercato digitale che disancorava la vendita da un oggetto e da un luogo per dedicarsi al World Wide tramite il Web (www & cose sintetizzando). Poi si è tornati a casa.
Perché? Inutile dire che la maggior parte è rimasta sempre dove stava, a parte le questioni linguistiche, escludendo piccoli club e tour dai miseri introiti. Chi ce l’ha fatta, prevalentemente, è dovuto emigrare, come Alessio Natalizia, per restare in ambio Disco Drive, il quale mi ha detto espressamente, in una vecchia intervista ai suoi Banjo Or Freakout, che “gli inglesi hanno dei preconcetti nei confronti dei musicisti italiani che restano in patria”.
Non siamo gli unici ad avere i paraocchi, insomma, anche se le major italiane hanno una politica, in questo senso, castrante. Se non bastasse l’esempio del rapper Turi si potrebbe parlare di The Niro. La stessa label, la Universal, difatti, ha pubblicato un album di classico hip hop inciso da Turi ma ha scartato un secondo disco che era incentrato, invece, su un mix linguistico di dialetto meridionale e slang americano, proprio ai nostri emigrati di seconda e terza, ma anche quarta, generazione, per una statuizione che vuole importare nel Belpaese ma non esportare. Difatti, tornando a bomba sul cantautorato, Davide Combusti, ovvero The Niro, firma prima con il ramo Usa dell’etichetta e poi con quello nostrano, ottenendo pressioni per registrare un pezzo in italiano e fiaschi dei pezzi cantati in inglese per la reticenza a non promuoverli attraverso la divisione internazionale. Ed eccolo, così, finalmente, esausto di combattere a rischio di bruciarsi, tra le fila di Sanremo 2014, come volevasi dimostrare dal monopolio della forza esercitato dai poteri forti del mercato.
E questa, però, è anche una vittoria: se gli Almamegretta a Sanremo ci sono arrivati 20 anni dopo il loro successo, nel 2013, e Giuliano Palma esordirà all’Ariston nella prossima edizione, passando come volto nuovo a quasi 30 anni di discografia sulle spalle, il fatto che The Niro sarà lì adesso e non con i peli del pube ingrigiti è da festeggiare. Dunque, se il festival avesse finalmente deciso di stare al passo coi tempi, o ameno di tentarci, sarebbe una gran cosa, ma resta il problema delle major e della loro reticenza ad esportare gli artisti italiani. Tant’è che dopo aver visto volare tutti tranne Modugno, ora è Bocelli l’unico nome a rappresentare l’Italia nell’indie americano.
E allora, il povero Brunori, divenuto Sas per il fatto di essere diventato imprenditore nell’ambito musicale, potrebbe avere anche lui qualche opportunità, con questa apertura, di poter gareggiare sul ring dell’Ariston, ma intanto gli toccherà campare e quindi suonare su altri palchi, magari gli stessi calcati da Prinzhorn Dance School e Buzzcocks, oltretutto catturando un numero maggiore di paganti rispetto a questi gruppi stranieri finanche nei locali indie (sempre sfruttando questa odiosa parola). Perché? Perché il cantautorato è il frutto della Bossi-Fini e delle politiche sull’immigrazione, arte partecipata di un nazionalismo diffuso quanto ignorato che punta il dito contro Berlusconi e canta forza Italia ad ogni partita dei mondiali. In più, questo nuovo cantautorato, rappresenta la deficienza di comunicazione e di coerenza interna alle istituzioni riconosciute: se l’ex AlbanoPowerColapesce dagli eletti al festival è stato scartato, nonostanteavesse appena vinto il Premio Tenco, la cosa sembra palese e la teoria quasi dimostrata. Anche perché, nella periferia romana, quell’Alessio Bonomo, che ha scritto molte canzoni di successo per Bocelli, continua a campare grazie a concerti da 300 euro e lauti assegni siae, ed anche questo è un assurdo funzionale.
Resta il fatto che molti di questi menestrelli, stanchi di fare la fame, hanno imboccato la via della tradizione musicale italiana, rinunciando ad ogni punto di rottura. Un fenomeno che ho definito già, se pure altrove , come “Zipangulo-rock”: chitarristi da falò, prima pagati in birre nazional-popolari e fette d’anguria (fette di zipangulo in dialetto calabro) che oggi ottengono ingaggi milionari solo per aver smesso di cantare Baglioni, Tenco, De Gregori e Bennato e tentato di imitarli male in maniera autorale. Brunori, tra di loro, è solo uno di quelli onesti, uno di quelli che segue una filologia personale che non poteva condurlo altrove, a parte che in una cover band dei suoi amati Litfiba, o magari ad essere un secondo Fiorello all’occhiello dei media italiani per via di un innegabile talento comunicativo. Gli altri sono saliti sul treno e creato confusione, ma nessuno gli dà addosso perché, con altri panni, nel circuito rock c’erano già da prima.
E poi, se uno vuole fare una guerra dovrebbe essere preparato. Quindi, invece che puntare contro Brunori direttamente, l’autore dell’articolo che lo incrimina, avrebbe potuto almeno documentarsi: il fatto che la sigla Sas rappresenti la ragione sociale (e scusate il retaggio giuridico) della ditta che ha consentito a Dario di tirare su una band, uno studio e ormai tre album e non un’emulazione nomenclativa di progetti elettronici dietro cui si cela un solo individuo con nome e cognome, è scritta in ogni intervista. Ed anche la location del video, la chiesa, era stata spiegata in una chiacchierata recentissima tra lui e Rockit: ha registrato il disco in un vecchio monastero che, tra l’altro, è di proprietà della mia ex moglie, o meglio della sua famiglia (lo dico per la stessa onestà intellettuale con la quale ho già parlato della mia amicizia con Dario precedentemente); nella stessa intervista è anticipato anche il ricorso all’elettronica che la combriccola detta Sas ha intrapreso in questo terzo capitolo della saga. Dunque, il collega, ha fatto il grave errore di non studiare per un cazzo, anzi neppure per un pelo di cazzo, tanto per usare una terminologia in antitesi con gli chansonnier francesi, che in questa vicenda, tornando alle origini, hanno più di una colpa.
Di suo, Dario, avrebbe potuto lasciare il titolo che aveva scelto in partenzaper il brano, ovvero Marilyn, senza chiamare in causa i Nirvana e dare adito ad accostamenti improbabili. Mentre, non trovo che Francesco Birsa Alessandri abbia torto concludendo che il successo del cantautorato nuovo affondi la propria ragione “nell’immobilità generale, è un discorso che si può fare per la musica pop come per campi molto più importanti della vita di questo Paese”.
Non capisco però perché prendersela con Brunori e non con gli ex punk o indie o rapper che siano. E poi soprattutto perché crocifiggere quel povero Cristo sull’altare di Belmonte dopo che gli alternativi del rock e dell’hip hop, a reti e media unificati, hanno innalzato Pezzali a uomo chiave di una o due generazioni. Sarà questa la dura legge del goal forse…
Stefano Cuzzocrea
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