Hey Joe
di 2bePOP - 21 marzo 2013
Attenti. In riga.
Quando un nome è impronunciabile, non può che avere un’eco che rimanda al divino.
Mantenerlo però non può certo essere considerata un’astuta strategia di marketing, irrimediabilmente devota all’oblio.
Niente di tutto questo in realtà, né marketing né divinità. Solo un nome. Impronunciabile: Apichatpong Weerasethakul. Vi sfido a rileggerlo e imprimerlo in memoria. Ma lui, bontà sua, anche Joe si lascia chiamare. Nessuno a Chicago l’avrebbe segnato in rubrica con quello vero, thailandese. E così dal divino al divano: gli Joe negli States sono quelli che fissano i lanci di Flacco in tv, col berretto madido e la Bud stretta nel pugno, imprecando fucking-qualcosa-qualcuno in gioconda solitudine. Mica tutti gli Joe, è chiaro.
Io però il giovane thailandese, studente di cinema alla School of the Art Institute, non lo immagino affatto a suo agio nei panni di Joe. Io dico che pigrizia e rassegnazione abbiano gestito la faccenda meglio di identità. Con tutta la saggezza thai del caso.
Che poi sia solo un nome, non è per nulla vero. Un nome lo è diventato, tant’è che quasi nessuno lo conosce più come Joe. Apichatpong Weerasethakul è una Palma d’Oro, per dirla con spirito. La pellicola Lo zio Boonme che si ricorda le vite precedenti, anno 2010, si è assicurato di certo un posticino nel novero dei grandi film d’autore: film che ha letteralmente stregato un certo Tim Burton, allora presidente di giuria.
Già nel 2004 si fece apprezzare non poco con la pellicola Tropical Malady, premio speciale della giuria a Cannes. Due anni dopo, con Syndromes and a Century, da nuovamente conferma del fatto che fisica e metafisica, almeno nel cinema, possono sposarsi. Tralasciando ora la sua filmografia da lungometrista (termine di dubbio seppure efficace uso), ciò che in sostanza più m’interessa è far emergere il lato forse meno manifesto delle sue visioni, quello dei cortometraggi e delle video installazioni. Terreno probabilmente più arduo da calcare. Perché la narrazione lineare seppure poco rintracciabile dei lungometraggi, qui cede il passo a visioni scomposte e conturbanti, che poco hanno a che fare con la comune idea di racconto. L’immagine penetra, regna e dilaga. Imperativo esortativo: non cercate una storia. Quello è cinema da sala, fissiamocelo in capoccia: “il tempo lineare non è né una realtà, né un concetto; è una brutta abitudine” ci dice Paul Chan. Magari no, ma certamente non attiene a ogni narrazione. Ben venga.
Per la prima volta in Italia (tanto per maggiorarne l’impatto), Apichatpong Weerasethakul dall’8 marzo al 28 aprile – ingresso libero – è presente a Milano all’Hangar Bicocca con Primitive, progetto concepito per gli spazi dell’ex Ansaldo-Breda con un allestimento ad hoc. Nel buio pesto del capannone, l’installazione si rivela da lontano come un’apparizione semi-spettrale. Ventagli di luce, stupori d’oscurità. Schermi adiacenti e altri distanti, a voler rimarcare discontinuità e parallelismi tra le immagini che si susseguono. Lui non ci casca nei cliché dell’orientalismo trash-chic o radical-care. Le sue visioni non sono foto in movimento, ben altro. Non è esecuzione e punto. Neppure virtuosismo stilistico (questo in parte pure). Se l’avesse visto Derrida, avrebbe assistito a un certo modo concettuale di materializzare la sua différance. La differenza che è la sincope. Il tempo che sempre torna su se stesso uguale a se stesso, differente soltanto per irrinunciabili particolari. Così l’opera, che si dispiega per le vie del villaggio Nabua, a nord della Thailandia, non è il resoconto documentaristico degli assedi e delle repressioni avvenute tra gli anni Sessanta e gli Ottanta. Né una struggente rievocazione. E’ più verosimilmente la loro rilettura in chiave atemporale. La loro riproposizione speculativa. I ragazzi mostrati negli schermi sono i discendenti dei dissidenti di quegli anni, con i quali l’artista ha vissuto. Sono loro l’acqua del fiume eraclideo in cui due volte è impossibile bagnarsi. Eppure primitivi. Come l’origine, il desiderio, la memoria storica, la legge del più forte. L’acqua dei fiumi. I lampi. La notte.
Riposo. Rompete le righe.
Laura Migliano