Don Diegoh: l’intervista
di 2bePOP - 6 gennaio 2013
Cosa non è pop? La rabbia oggi sembra demodé. Ebbene Don Diegoh, invece, sintonizza la sua radio su quelle frequenze, forse perché è meglio un trend reattivo dell’indifferenza. L’odio oggi è mascherato da diplomazia. I politici fingono di farsi la guerra, onorando la teoria della fiction televisiva. E il razzismo più odio resta ignoranza. Sono motivi validi per incazzarsi. Ma non bastano. Dentro Radio Rabbia ci sono sguardi profondi che affondano nel quotidiano e traducono in versi la contemporaneità. Per qualcuno potrebbe sembrare solo musica, ma l’hip hop è cultura. E per il rapper calabro-romano non potrebbe essere altrimenti.
Il suo è un album, insomma, nel quale è fotografata l’urbanità delle nostre città, lasciando l’idiozia come sfondo di soggetti mossi che, difatti, impressionano l’obbiettivo.
“Ho iniziato a lavorarci su, inizialmente senza avere il fine di fare un vero e proprio album, dal 2009. Erano 4 anni che non uscivo con un qualcosa di mio. Dopo Double Deck, però, ho sentito il bisogno di fermarmi un attimo a guardarmi dentro e a osservare il mondo. Tra alti e bassi, sommando i ritardi che sono nel Dna di ogni lavoro, la gestazione di Radio Rabbia è stata molto lunga, anche perché gran parte delle session le abbiamo fatte a distanza, dato che io vivo a Roma e Mastrofabbro a Catanzaro”. Ce lo spiega così, soffermandosi anche sulla doppia natura ritmica che lo alimenta, quella tra passato e presente: “Una doppia scelta dettata dal nostro background e dal nostro modo di comunicare la vita ad altre vite”.
E pare che i bersagli siano stati colpiti. “Direi che sta andando bene. Tralascio il discorso relativo ai numeri, in favore di una riflessione sui feedback umani che abbiamo ricevuto: dal giorno in cui è uscito ad oggi sono stati tanti e mi mi preme sottolinearlo, visto che la gente non si è soffermata a sentire il disco, ma lo ha ascoltato e interiorizzato, ed era esattamente quello a cui miravamo ”.
Dai suoi esordi al microfono sono cambiate un bel po’ di cose nel rap, ma, magari, non troppe. “È cambiato tutto e, anche se sembra una contraddizione, il contrario di tutto. Rispetto a qualche tempo fa ci sono molta più consapevolezza e diffusione capillare, ma non vedo la stessa esigenza di concepire l’hip hop come mezzo: trovo (e so bene di non essere il solo) che stia diventando un fine, uno di quei vestiti da mettere per entrare gratis al gran gala della società. Inoltre, non mi pare sia chiara a tutti la linea di demarcazione tra competizione ed odio”.
Insomma, una società basata sull’apparenza e sulla competizione ha generato una scena non troppo distante da queste coordinate. Il to be real come imperativo è connaturato anche a questo rischio, non ce ne si può esimere. Ma, dopo anni di vacche magre, lo splendore del rap italiano, in vetta alle classifiche, di questi giorni, potrebbe anche mandare tutto, letteralmente, a puttane come per effetto collaterale, e del resto è già successo venti anni fa.
“Lo splendore odierno è per molti versi il frutto del duro lavoro di coloro che hanno lavorato nell’ombra in un periodo in cui nessuno balzava agli onori della cronaca”, ribadisce Diegoh, tornando a dare a Cesare quello che ora sembra appartenere ad altri e giovanissimi imperatori.
Lui sembra integro. Non a caso segue un credo personale: “Cerco sempre di essere il capo di me stesso e mai la Groupie di me stesso; d’altronde se, al contrario, commettessi di questi errori con ogni probabilità non avrei più il coraggio di guardarmi allo specchio”.
Stefano Cuzzocrea