Sono stata al concerto di Vasco Rossi, e mi chiedo perché non l’abbia mai fatto prima.
di 2bePOP - 4 luglio 2016
di Tiziana LiguoriNella mia vita ho sempre seguito alcune indicazioni sociali, semplici ma determinanti nelle mie scelte di qualsiasi tipo.
Ho sempre creduto che la gente figa ascolta solo musica alternativa, non mainstream (quella che non ascolta nessuno per intenderci), la gente non figa ascolta musica commerciale.
La gente figa passa il tempo a snocciolare nomi di artisti pseudo sconosciuti, letti su qualche articolo di qualche blog, di qualche giornalista, trovato così per caso. Artisti che passano la loro vita a suonare nei circoletti fumosi e bui, con massimo 20 persone paganti, e nelle loro canzoni parlano del male di vivere, di lotte politiche, passandoti messaggi così criptici che per forza ti ci ritrovi, nel senso che ognuno se li interpreta a modo suo.
La gente non figa passa il tempo a cantare l’ultima canzone del noto cantante, a commentarla con frasi concise e esempi di vita quotidiana. In macchina ha sempre il disco pronto e lo si ascolta a tutto volume, con il finestrino abbassato e il gomito di fuori. No messaggi politici, niente male di vivere, gioia e divertimento, che sono a un passo dalla superficialità.
Ecco questo era il mio mondo sociale, basato su questo pregiudizio semplice e presuntuoso, e anche arrogante va.
Poi sono andata al concerto di Vasco Rossi. Il mio pregiudizio sociale mi impedisce di comprare il biglietto, in realtà manco mi fa sfiorare l’idea. Il caso però non si fa gli affari suoi e una mia amica mi dice che ha due biglietti gratis, andiamo, cazzo è di lunedì, vabbhè che ti frega passiamo una serata.
Si parte da un lato della città praticamente deserta, complice la partita dell’Italia. Si arriva in un altro quadrante della città congestionato da macchine, motorini e gente palestrata con la fascia in testa e la canottiera con la scritta Vasco.
Gente che cammina compatta che a stento trattiene l’emozione, o la sfoga con il solito mantra del Popopopooopo, venuto fuori da qualche Mondiale e usato in ogni occasione calcistica o meno, maschia diciamo.
Le donne sono tutte così simili, passano dalla zeppa bianca altissima sotto il pantalone attillato, ai pantaloncini supercorti. Tette e addominali in vista. Femmine prima ancora che donne. E sono accompagnate dall’uomo della situazione. Tatuaggi e muscoli, maglia con la scritta Vasco ovunque, qualcuno anche ha tra i capelli. E la fascia ovunque. Tra i capelli delle donne e sulle teste degli uomini.
La camminata degli uomini poi, è quasi un omaggio al loro mito. Gambe divaricate leggermente e molleggiano sulle ginocchia. Ma questo lo noterò dopo.
Arrivate allo stadio, da brave anzianotte scopriamo nostro malgrado che i biglietti sono per il prato. E non nascondiamo un momento di malessere. In piedi, di lunedì sera, tutta la serata, in mezzo ai veri fans. Amen.
Lo spettacolo di un concerto all’Olimpico riporta in vita il mio animo provincialotto. Un ohhhhh di emozione viene fuori appena entro. C’ero già stata all’Olimpico, ma anche stavolta è come se fosse la prima. Le luci, la gente, già questo un po’ mi riporta in pace con i miei pregiudizi.
Certo continuo a guardarmi intorno però comincio a non vedere solo palestrati e canottiere, ma anche famiglie e bambini piccoli, ragazze normali senza addominali, ragazzi con occhiali e polo, e un tipo con la camicia bianca appena uscito dall’ufficio, che a fine serata diventerà ufficialmente il mio mito.
Poi entra Vasco Rossi. La gente impazzisce, ovviamente, e io comincio a sorridere, in maniera stranamente involontaria.
Vasco in formissima, un viso bello e rilassato, sorriso e una giacca glitter che fa poco rocknroll. E il suo modo di stare in piedi. Maglia nera che lascia intravedere la sua pancia. Jeans morbidi. Mi vengono in mente i miei compaesani e la mia adolescenza nel mio paese.
Loro adorano Vasco. È il loro dio. Sono cresciuti con le sue canzoni, lui ha saputo dare loro le parole giuste per le occasioni giuste, e anche qualche consiglio di stile, considerata la frequenza di maglie nere, jeans un po’ larghi sotto e cappelli verdi militare che si vedono nel mio paese.
Quando alle feste parte Rewind i miei compaesani si abbracciano e cominciano a cantare insieme a squarciagola. Lo stesso effetto di Roadhouse Blues dei Doors. Un unico abbraccio, un’unica voce che aumenta di volume su singole parole a fine frase, e un unico salto.
E anche l’Olimpico diventa un’unica voce che non si interrompe mai, per tutte le due ore e quaranta di concerto. Vasco inizia cantando le canzoni più recenti, e io mi guardo intorno, in silenzio visto che non ne conosco neanche una, e vedo solo occhi lucidi e gente che canta e sorride.
La seconda parte del concerto mi mette seriamente in crisi, me e i miei borghesissimi pregiudizi. Vasco comincia a cantare tutte quelle canzoni a cui non so dare un titolo ma che conosco bene, e io canto con lui e con la sua gente, canto come fa la sua gente, saltando o stando ferma con le braccia alzate, urlando “Lalalalala fammi godere, ehhhh”, con buona pace del mio antisessismo, guardando ragazze con le tette da fuori cantare sulle spalle di qualche uomo, guardando il tipo con la camicia bianca che è diventato l’amico di tutti abbracciando e cantando a squarciagola tutte le canzoni, guardando e sorridendo un gruppo di ragazzi che accende in pieno stadio, in pieno concerto, un fumogeno.
E comincio a pensare che effettivamente non c’ho capito molto, oscurata com’ero dai miei pregiudizi. Vasco Rossi non è un cantante tamarro. Non canta canzoni tamarre. Parla una lingua semplice che da voce alla rabbia, alla passione, al senso di alienazione e di inadeguatezza. Parla di amore con frasi semplici e terrene. Usa espressioni che identificano e celebrano un modo di essere. Tutto con parole semplici e chiare, senza fronzoli. Il messaggio che riserva al suo popolo è perfetto una roba del tipo “non temete l’odio ma la paura, non dovete avere paura” incitandoli a combattere per realizzare i propri sogni. Roba semplice si, ma d’effetto, considerando il boato di approvazione che l’olimpico gli riserva.
Vasco Rossi da sempre denuncia un “precariato esistenziale” prima ancora che economico, generazioni intere che difficilmente riusciranno a vincere, non perdenti ma sconfitti dalla vita, almeno in superficie. E offre loro le parole per convogliare la propria rabbia ma anche la forza per lottare.
Sono giorni che riascolto tutte le sue vecchie canzoni. E sono giorni che penso che i pregiudizi sono davvero una cazzata. I pregiudizi limitano le esperienze e spengono la curiosità. E senza curiosità non si vive.
Quindi grazie Vasco Rossi, anzi Komandante.