Ma Burial è davvero lui?
di 2bePOP - 22 dicembre 2012
A te che scrivi sopra fogli A4 e riempi righe d’equazioni monetarie, frangettino dell’industria musicale, uno come William Bevan, c’è da starne certi, non te lo riesco a spiegare nemmeno se mi riempi di cartine lunghe e filtri toaster.
Piuttosto, South East London, ghosts n’ stuff della periferia capitale, sono un migliaio di neon, centomila fabbricati e altrettanti abitacoli piazzati in verticale, coi terrazzi grigi e i palazzoni bassi, che danno sulle strade con la stessa arroganza delle colonie giamaicane, quelli che stanno all’angolo a passare il tempo a stringere i joint tra le due dita e, quando va bene, si ritrovano di notte a prendersi bene sopra chili di ragga vibes.
Urbanizm state of mind.
L’Elliott School è uno sputo di arte & sapere tra le siepi e i selciati d’erba borghese, che negli anni ha visto crescere e passare un pot pourri di personaggi di prim’ordine, direttamente poi finiti nelle grinfie dell’industria culturale della regina sua maestà. Peter Green, gli Hot Chip, The XX e addirittura Pierce Brosnan. Assieme a tutta la ballotta, intorno alla metà dei 90s, capeggiavano le fila il già citato William e quell’altro folletto andante di Hebden, al battesimo Kieran, alle macchine come Four Tet. Un’adolescenza di ascolti passati insieme, 2-step, UK garage, e poi le rispettive e deflagranti luminarie soniche.
[Primo step, appunto, blocco note preso e salvato senza folder]
Un blog gestito da una manica di dietrologi, che attraverso tesi e responsi condivisibili, più o meno, cerca di far saltare in aria tutta la verità che rimarrebbe dietro, in disparte, chiusa dal fascino e dal peso di una maschera ingombrante come quella del producer Bevan. Burial come l’alter ego scuro e squatter di Kieran Hebden. I conti tornano, o forse no, ma in fondo, anche se fosse, a noi figli dello smog sai che cosa importa?
Tutto riporta, come nei percorsi lunari e nelle stanche derive di un giorno preso e mangiato senza moto tangere, al punto di partenza. Cos’è, cos’è significa oggi, fremere e parlare di uno come Burial? Probabile che il vertice basso del triangolo dub, continui a rappresentare per chi vuole avvicinarsi alla pratica d’ascolto electro, la via d’accesso privilegiata e senz’altro più immediata. Non sono i filtri toaster e le altre fregnacce instagrammatiche alle quali si accennava prima, ma un intero modo di concepire e flettere tutta la materia sonora stretta tra le mani, a un semplice rendiconto emozionale. Ambient-dub-pop verrebbe da dire, nella maniera meno inflazionata e paracula possibile. Perché qui non c’è la necessità primaria dell’analisi tecnica del fenomeno, non c’è, almeno in primo piano, l’intervallo di quarta aumentata, la dissonanza armonica e la shuffle note. C’è piuttosto in copertina un universo fatto e finito a modo e forma di un qualsiasi angolo stradale del panorama urbano della city. Un incrocio qualsiasi tra Trinity e Windmill Road, proprio come nella foto che campeggia sulla prima release omonima dello stesso Bevan. E con questo tutto lo scenario, le immagini, l’oscurità, la magia e il fascino che ci si finisce con il portare inesorabilmente dietro. La South East London di prima, presa e spiegata come antologia di pezzi a cuore aperto, da un producer parzialmente faceless, e che nel giro di nemmeno dieci anni, è riuscito a indirizzare, tra le maglie di quello che era (ed è?) il suono del momento, la propria indelebile impronta. Con tutto l’extra hype possibile che ciò comporta. Uno spaccato di universo metropolitano, più dei wobble mannaia di Skream, delle bassline crepacuore di un paio di Digital Mystikz qualsiasi. Fotografia ed estetica.
[Secondo step, altro appunto]
Truant / Rough Sleeper – HDB069
Cinque anni di silenzio pressoché totale, intervallato da qualche sporadica comparsa in combo, singoli passeggeri mancanti di quella spina dorsale forte e univoca che anche solo per un minuto, potesse farli entrare definitivamente sottopelle com’era stato con i due LP. Ora, all’improvviso, come dal 2007 in un solo anno non era mai accaduto, due release che se non saziano la fame di viaggio, ma che quantomeno stanno lì ad avvisare che Burial vive e lotta insieme a noi. Se “Kindred” aveva definitivamente sdoganato l’amore per la cassa in quarti e speziava il piatto con l’ardore minimale di certa tech-house, “Truant” e “Rough Sleeper” proseguono su quella stessa strada, anzi ne enfatizzano ancora di più i toni. Due lunghe suite in 4/5 movimenti schizofrenici e scomposti, bagliori invernali marchiati totalmente black.
Quindi, la domanda, enfatica o meno, rimane sempre su come sia possibile, ogni volta, guardare a un producer come Burial con la stessa dose di stupore e meraviglia ad ogni singola uscita, aspettandosi, una volta ancora, il colpo di coda, il nuovo disegno para-normale, le coordinate dalla quali guardare e farsi gettare per terra da un gigantesco zeitgeist confinato tra la malavita della periferia di Londra. E la risposta non c’è, o quantomeno è lo stesso Burial che gioca, si nasconde, non si impegna a farla arrivare. La centellina a singhiozzo, singolo dopo singolo, come se fosse un Four Tet qualsiasi impegnato come un matto a dare vita in primis a un adeguato profilo ufficiale. Ma quella è un’altra storia. O forse no? Semplicemente, riattacco play e continuo a dirmi “I feel in love with you”.
Marcello Farno