Cercare l’ALTrove a Catanzaro, report da un festival bellissimo
di Marcello Farno - 1 giugno 2015
La mia prima trasferta a Catanzaro coincide con la mia prima volta ALTrove. C’è ovviamente uno strano filo rosso che intercorre nella casualità dell’evento, e non sto qui a sbrogliarlo. Ad ALTrove ci vado con Scioc!, ci invitano a presentare la rivista nella giornata inaugurale del festival: un festival di street-art, che dura dieci giorni e arrivato quest’anno alla sua seconda edizione. Un caso più unico che raro, in una città del sud che in Calabria del Nord arriva col corso del suo peccato originale. Ça va sans dire incontro Eddie, organizzatore e curatore della rassegna, sotto uno striscione che incita alla causa delle aquile, di fronte Casa ALTrove, il quartier generale dell’evento, un ex-pub riconvertito in galleria temporanea appositamente per il festival. Gli faccio i complimenti per la situazione e la vivacità della proposta. Il colpo d’occhio dentro Casa ALTrove è questo:
Gli interni di Casa ALTrove.
La collettiva ospita le opere di: 108, Clemens Behr, Alberonero, Giorgio Bartocci, Ciredz, Erosie, Graphic Surgery, Sbagliato, Sten Lex, Tellas, 2501, Martina Merlini, Moneyless e Domenico Romeo. Nella sala che immagino ospitare la cucina, in quella che era la vita precedente del locale, i ragazzi di 56 Fili tengono un workshop di serigrafia. Si va avanti dal tardo pomeriggio fino a mezzanotte, poi ci sposta giù, a Lido, dove Populous battezza la notte con un live all’Hemingway.
Non riesco più a tornare nelle altre giornate del festival, ne seguo da lontano i movimenti e mi appassiono. Passata la tempesta scrivo ad Eddie, ci risentiamo su Skype per tracciare una linea di quello che è stato questo ALTrove, parlare di identità e progetti futuri, farsi raccontare come si organizza un festival a Catanzaro, come si scelgono gli artisti e si finisce a bere limoncello con gli anziani del quartiere.
Dall’alto: l’opera di Alberonero, “Porco Benvenuto, 158 Toni”, nel quartiere Materdomini;un particolare da “Increment”, di Graphic Surgery, a Catanzaro Sala.
Avete già fatto dei bilanci? Com’è andata?
È andata benissimo, molto meglio dello scorso anno. Gli artisti sono contenti di come hanno lavorato, i muri sono delle bombe, stanno uscendo un sacco di articoli. Direi che il bilancio è sicuramente positivo.
Qual è lo scarto più grande rispetto alla prima edizione?
Lo scorso anno era tutto gestito in maniera più “casuale” diciamo, era la prima esperienza per noi, serviva soprattutto per dare un segnale forte alla città, per far vedere che c’eravamo. Quest’anno la qualità si è alzata notevolmente, c’è stato un ragionamento sullo spazio urbano, la scelta degli artisti ha seguito una certa logica e tutti hanno compreso appieno lo spirito e il concept del festival traducendolo sui muri. Anche la collettiva poi, quest’anno per Casa ALTrove abbiamo chiesto delle opere uniche ad ogni artista e la mostra è diventata quasi un evento a sè.
Risaliamo la corrente. Il nome del festival a cosa si riferisce?
Il nome in realtà è diviso in due parti: la prima parte dice ALT, cioè fermati, alza lo sguardo e guarda se quello che ti sta attorno ti gratifica. A volte siamo così abituati alla bruttezza da non farci caso. Noi invece vogliamo dire che se riesci a creare una tua visione puoi pensare di essere altrove rimanendo nello stesso posto.
Tu sei di Catanzaro?
Si, sono nato qui, poi dopo il liceo ho vissuto un anno a Cosenza, poi mi sono trasferito a Bologna per tre anni, poi un anno a Parigi e poi ancora a Bologna. Ho 27 anni e sono iscritto a ingegneria edile, mi mancano cinque esami che non so quando darò. Da dicembre sono tornato qua, così come Vincenzo, il ragazzo che lavora con me all’organizzazione del festival. Ho mollato tutta la vita che avevo là, è stata una scelta un po’ tosta però non mi sono mai pentito, non ho avuto momenti di down, anche perchè gli ultimi sei mesi li ho passati a lavorare al festival.
Che importanza ha Catanzaro nell’esperienza di ALTrove?
Un’importanza capitale. Due anni fa parlavo con i miei amici e tutti mi dicevano “figa l’idea del festival, ma fallo a Bologna, la gente apprezzerà di più”. Io non sono mai stato d’accordo, fare un’azione del genere a Catanzaro, che è un terreno vergine su tutti i campi, ha la forza di una rivoluzione, a livello estetico e a livello sociale. La cosa più bella è stata vedere i catanzaresi rispondere, uscire di casa, sporcarsi le mani assieme a noi. C’è stata una marea di gente che ci ha dato una mano, proprio a livello di braccia, di logistica, di contatti, gente che non vedeva l’ora di fare qualcosa di bello, prima per vivere un’esperienza diversa per sè stessi e poi per fare qualcosa per la propria città. Per me è un onore fare il festival a Catanzaro.
Come scegliete i muri da dipingere?
Giriamo come i pazzi. L’unica prerogativa che ci imponiamo è che il muro deve essere all’interno di un quartiere vivo, magari di fronte ad una piazza, il che vuol dire che la gente vive e fruisce quel posto. Poi la ricerca avviene anche per caso, una sera ad esempio accompagnando un amico a casa ho notato questo muro e subito è scattato l’amore. È diventato il muro di Clemens Behr, all’interno di un quartiere dove forse, vivendo per 60 anni a Catanzaro, finiresti per non capitare mai. È la riscoperta di posti lontani dal centro della città che però continuano a pulsare di vita propria.
Come rispondono gli abitanti solitamente?
Benissimo, finora abbiamo avuto soltanto adesioni. A Piano Casa ad esempio, dopo aver visto Erosie dipingere per tre giorni, ci sono venuti a chiedere anche di realizzare un altro muro. All’inizio la scelta dell’astrattismo ci impauriva un po’, però sapendo che avevamo la città dalla nostra parte volevamo far compiere un passo in avanti anche ai cittadini. Le opere di quest’anno ti obbligavano per certi versi ad andare oltre la superficie, ad abbracciare un certo tipo di visione. Volevamo imprimere un cambiamento reale e non accontentare i cittadini. Se alla fine le opere sono piaciute significa che questa visione è stata capita, accettata.
Mi spieghi come avete lavorato nel rapportarvi ai luoghi partendo dalla suggestione dell’astratto?
Il discorso è strettamente legato al rapporto tra arte e architettura. Abbiamo agito su delle pareti di edifici: non sono delle tele, sono dei palazzi, pertanto bisogna avere un approccio molto architettonico alla creazione, tenere conto di quello che c’è intorno. Come ti dicevo prima abbiamo voluto agire solo su edifici, palazzi che si trovassero nel cuore dei quartieri. Dentro l’Aranceto ad esempio, che è un quartiere veramente complicato, col 90% di abitanti rom e tanta microcriminalità radicata. Noi siamo andati lì dentro sapendo che avremmo avuto delle difficoltà, ed è stato così, però sono usciti due muri giganti, di Ciredz e Giorgio Bartocci, che sono diventati simbolo reale della nostra azione. Possiamo fare tantissime chiacchiere, però noi abbiamo la responsabilità di dover agire in situazioni estreme. Magari poi lì non cambia nulla, intanto però tu hai dato una visione diversa a tantissimi bambini che a sei anni l’unica cosa che sanno fare è guidare le macchine e rubare i motorini.
Cito una frase dal comunicato: “ridare umanità al paesaggio costruito e naturale”…
Appunto, per noi è fondamentale ridare importanza allo spazio pubblico che è lo spazio per la relazioni tra gli uomini, è li che bisogna mettere l’accento. Noi abbiamo cercato di farlo tramite dei muri, poi il processo è molto lungo, si può raggiungere solo se tutti remiamo dalla stessa parte.
un particolare da “Madre Nostra” di Giorgio Bartocci, entrambi nel quartiere Aranceto.
Ci sono stati dei feedback inaspettati che ti hanno colpito in particolar modo?
Gli anziani più di tutti, che erano quelli di cui avevamo più paura e invece sono stati incredibili, ne conto almeno una ventina oltre i 60 anni che si sono affezionati al progetto e ci hanno seguito passo passo. Abbiamo agito in quartieri dove l’età media è molto alta, Piano Casa, ma anche Campagnella. A Campagnella ho conosciuto questo signore, Franco Pristerà, che si è fatto promotore per raccogliere le firme, mi ha portato alla bocciofila, mi ha offerto il limoncello, diceva che in me rivedeva le cose che faceva lui da giovane. Conoscere queste persone da dentro è una delle soddisfazioni che più ti rimane impressa.
E i più giovani?
Sono andati in crescendo. La festa iniziale è andata male a livello di numeri, non so forse non avendo coinvolto persone del territorio, sai come funziona… Fortunatamente poi gli altri appuntamenti hanno iniziato ad essere sempre più partecipati, per poi esplodere dopo il secondo venerdì. Mi aspettavo una partecipazione diversa però, prendiamo atto di questa cosa, forse abbiamo bisogno di fare un’informazione diversa su di loro.
Non ti ho ancora chiesto la cosa più importante: come si sostiene il festival?
Grazie a una serie di imprenditori del territorio che ci danno una mano incredibile, sia a livello economico sia a livello tecnico. Molti degli sponsor che abbiamo spesso sono tecnici, Linvea Vernici ad esempio, che ci da un carico di materiali coi quali riusciamo a realizzare tutte le opere, o l’Agriturismo Petrara, che ha ospitato gli artisti per tutti i dieci giorni del festival. Per il vitto ad esempio abbiamo fatto lavorare le mamme, le nonne, le zie, ci ingegniamo per abbattere i costi insomma, perchè se fai i conti questo è un festival che costa 70.000 euro, però limando qua e là riusciamo a spenderne molto meno. Al momento non ci appoggiamo a dei fondi pubblici ma non per una questione ideologica, piuttosto pratica, preferiamo per ora muoverci da noi, tutti gli sponsor che abbiamo credono in questa cosa qua, si rendono conto che stiamo facendo qualcosa che agisce concretamente sulla città, e l’immagine che ne ricavano va a loro benificio.
Come rispondono le amministrazioni?
Bene, non facciamo mica la guerra. Anzi, il comune di Catanzaro ci ha dato una bella mano, sono stati attenti e veloci in quello che gli avevamo chiesto. Per noi è anche un’azione politica, nel senso bello del termine, entrare in questi posti molto vecchi e dargli dall’interno un’idea, una visione nuova, ci gasa abbastanza come cosa.
Quanto vi impegna lavorare al festival?
Tutta la nostra vita (ride, nda). Fai conto che assieme a Vincenzo abbiamo un’agenzia di comunicazione, e tutto quello che guadagnamo lo reinvestiamo nel festival. A livello di tempistiche diciamo che da settembre abbiamo iniziato a ragionare sul concept, a novembre avevamo chiuso la line-up, e poi da lì è stato tutto un muoversi per il found raising, gli aspetti promozionali. L’impegno è totalizzante, e questa cosa ci piace da morire, però ci cannibalizza per certi aspetti. Io per farti un esempio, da due anni a questa parte, se devo comprare un libro compro sempre qualcosa che rimanda a quello che facciamo, saggi sull’arte contemporanea, etc. Non so nemmeno più come è fatto un romanzo.
Come scegli gli artisti?
Alla fine la scelta è legata al mio gusto. Per quest’anno, dopo aver deciso che il fil rouge doveva essere l’astrattismo, abbiamo voluto dare importanza prima di tutto alla scena italiana, spingendo artisti che sono fonte di ispirazione costante per chi ci guarda dall’estero, un nome su tutti è quello di 108 ad esempio. Dopodichè abbiamo voluto dare un respiro anche più internazionale chiamando tre artisti stranieri che secondo noi collimavano alla perfezione col concept, che sono Clemens Behr, Erosie e Graphic Surgery.
Respirando l’atmosfera del primo giorno del festival mi è parso di capire anche che si venga a creare un bel rapporto, una bella cornice dove gli artisti riescono a lavorare scambiandosi idee, pareri…
Far venire tutti gli artisti in dieci giorni, nello stesso posto, significa quasi creare una residenza temporanea. Sono persone che si stimano, che difficilmente si ritrovano tutte insieme nello stesso luogo, e questo fa sì che che si vengano a creare dei rapporti di amicizia che vadano oltre il lavoro, che è poi la cosa che gli artisti apprezzano di più rispetto ad altri eventi o rassegne dello stesso tipo, proprio perchè c’è un approccio diverso, basato sulle persone.
Come vedi la crescita del festival?
Siamo sulla strada giusta, c’è stato un bel salto, ora dobbiamo continuare a salire in alto, non sarà facile però è molto stimolante, crediamo che ci siano tanti aspetti da poter migliorare. Oggettivamente anche sul discorso fondi dobbiamo trovare una diversa sostenibilità economica, è un progetto totalizzante come ti dicevo, sapevamo che per i primi due-tre anni dovevamo dimostrare noi stessi di essere capaci di lavorare e stare dietro a questa cosa, e crediamo di esserci riusciti. Ora dobbiamo cercare di prendere dei finanziamenti, perchè gli strumenti ci sono, spesso sono fittizi, a consuntivo, dobbiamo trovare un sistema chiaro e fattibile. Per concentrarci a lavorare sui dettagli essenzialmente, che sono quelli che poi fanno la differenza, e poi dare un premio a tutti i ragazzi che ci aiutano, perchè c’è gente che per 10-15 giorni lavora al festival isolandosi da tutto e da tutti, e non si può pensare che lo continui a fare gratis.
Ultima cosa: c’è un posto di Catanzaro che sta in cima alla tua lista dei desideri?
C’è un muro che sta in via Carlo V che è incredibile, in una stradina non grossa, dove il traffico scorre in maniera molto lenta, e questa cosa ti da la possibilità di poterlo ammirare. Sono quattro piani, più due piani in giu, il palazzo è inclinato sulla strada, è come se avesse una quinta tutta per sè. Quello è veramente il muro dei sogni. E poi tutto il centro storico, per noi è uno degli elementi più importanti di tutti. La bellezza di quel posto è fuori discussione e l’abbandono che sta subendo è incredibile, ci sono tantissimi scorci che pochi conoscono, Largo Prigioni ad esempio, sotto il Castello di San Giovanni, quella è una piazza incredibile, silenziosissima, un altro posto dove vorremmo fare qualcosa. Vorremo dare un valore a tutta questa bellezza e far capire ai catanzaresi che abbiamo una città splendida senza bisogno di guardare fuori.
Dall’alto: un particolare da “Profondo Sud” di Tellas, nel quartiere Materdomini;
i tre muri realizzati da Erosie, “Linguaggio Universale”, a Piano Casa;
un particolare da “Nel Regno dei Feaci”, di 108, nell’ex mercato del quartiere Lido.
Tutte le foto sono di Angelo Jaroszuk Bogas.
La foto di copertina è un particolare da “Space To Place” di Clemens Behr .