Subsonica @ Palalottomatica (Roma)
di 2bePOP - 23 novembre 2014
Le dimensioni sono importanti? Quello dei Subsonica potrebbe essere scambiato per un concerto frequentato da femmine con le all stars, dunque qualcuna potrebbe dire che contano eccome, senza capirci un cazzo, e del resto la maggior parte di loro non sa chi sia Chuck Taylor. La verità è che si tratta di una grande band e anche cazzuta. L’unica, a dire il vero, tra quelle italiane, da meritare di riempire un palazzetto (tra l’altro con un biglietto economico e risorse energetiche ecosostenibili). Certo, il Palottomatica ha, ancora una volta, una qualità audio pessima, e quasi nulla può il prode e sodale fonico Cipo. Ma l’unica soluzione alternativa sarebbe quella di organizzare sette concerti di fila al Parco Della Musica, seguendo un po’ il vezzoso Prince e le sue date londinesi. Riusciranno i nostri eroi a rinunciare a tutto il sudore però? E soprattutto potrebbero fare a meno di un palco tanto coreografico? Stage a tre terrazze, dove Davide monta e suona tastiere su altrettanti livelli, tra molle, rotelle, carisma e quel tocco elettronico che fa tanto clubbing e li ha portati a stare ad oscillare tra disco e rock, senza quasi mai essere banali.
Luci pazzesche. Tra un balcone e l’altro, schermi lisergici stupiscono con effetti speciali e ultracolori, sebbene sia solo scienza e non fantascienza. Ma quando si spengono le luci, prima dell’inizio, e il buio avvolge le migliaia di persone, visti dall’alto, i quadranti illuminati di altrettanti telefonini sembrano disegnare il panorama che si scorgeva dall’astronave di Ian Solo in Guerre Stellari. Spaziale. Galattico. Segno dei tempi o forse solo ingordigia 2.0 che assume altre sembianze. Il bicchiere è mezzo pieno insomma e lo resterà fino in fondo. Suonano più di due ore, circa il doppio di ogni gruppucolo indie e di tanti altri colleghi che non ce l’hanno fatta ad uscire vivi dagli anni ’90. Non basta? Se le dimensioni contano la durata vale almeno il doppio. C’è amore. Questo è certo. E non si tratta solo di albechiare: c’è Isabella Ferrari a divertirsi in platea. E, guardando oltre le famigerate quote rosa, si vede pure una coppia inedita, formata da Piotta e Venditti, a godersi una performance magica almeno quanto la Roma. Volti noti insieme ad una moltitudine di altri volti. Tanti singoli in mezzo a qualche manciata di pezzi che non sono ancora passati in radio o su Mtv. Forse addirittura troppi singoli, se si vuole trovare una pecca. Ma se Nuova ossessione è scaduta come il latte fresco di qualche anno fa, Samuel la intona sommerso da tante di quelle voci ossessionate dal brano che tutto trova senso, e poi qualcuno dei fan ha davvero rinunciato alla tv, di questo si può essere certi: basta connettersi. Ed anche Liberi tutti, amata più per il messaggio che per il sound, almeno da chi è sensibile alla civiltà che avanza, introdotta da chitare morriconiane di un bridge tratto dal l’Eclissi, assume più finezza; “l’aria è più pesante che mai” canta lo sceriffo, prima di ribadire quel garantismo professato da tre lustri. Sono fuori dalle abitudini. Finanche Tutti i miei sbagli, in una riqualificazione rock semiacustica, nel bis finale, si scaglia contro la dozzinalità e lo stantio, e commuove ancora. È un pezzo che ha portato la tossicodipendenza sul palco di Sanremo, fingendosi una storia d’amore, fra i fiori dell’Ariston. Chissà quante di queste ragazze con le all stars l’avranno dedicata ad un amore finito. C’è da ridere insomma. O almeno da sorridere.
Onestamente bisognerebbe essere felici. Perché? Magari solo per vedere Max Casacci muoversi e suonare con la stessa autorevolezza e carisma di tanti suoi coetanei inglesi, venerati da decenni, che potrebbero essere stati i suoi miti adolescenziali e che adesso stanno lì, sulla stessa frequenza. Sempre più vicini. Forse è proprio da quel rivoluzionario album dei Casino Royale che questa storia ha inizio. È un po’ come dire coriandoli a natale. Tanto l’importante non è la caduta ma l’atterraggio. Fino a qui tutto bene, fino a qui tutto più che bene. Un gande concerto insomma. Un pubblico smisurato. Una carriera che continua ad elevarsi a potenza. Le dimensioni in Italia sono sbagliate ma in questo caso contano eccome. Chi non lo capisce, allora, si merita tutta la dozzinalità dell’immobile panorama nazionalpopolare. I Subsonica stanno da un’altra parte e, a tratti, sembra che la loro Torino sia smisurata. Perché, se proprio un altro difetto va trovato, sta proprio nel loro non essersi mossi troppo da casa. E tu?
Stefano Cuzzocrea