Kento: il rap non va più di moda?
di 2bePOP - 18 novembre 2014
Il rap non va più di moda. Ok, c’è Emis Killa che ha in mano uno dei salotti più importanti della televisione italiana. Sì, ci sono i Club Dogo in classifica, e non sono i soli anzi. Ma per uno cresciuto a suon di hip hop impegnato, negli anni 90, questo nuovo boom non ha troppo senso. Prima, però, di parlare di evoluzione o involuzione, è giusto concentrarsi sulle differenze. Kento ad esempio è un buon punto di continuità col passato e di rottura col presente, eppure, parlando con lui, si percepisce che ha ben chiaro in che direzione si possa intravedere il futuro. Lui è differente. “Non sono d’accordo nel vedere il rap come il nuovo cantautorato: Guccini, Bertoli, Gaetano, De Gregori, hanno influenzato parecchio la società, il rap sta iniziando solo adesso ad avere un impatto generazionale; Rakim si auspicava un potere alla parola e pare stia accadendo”. Inizia così la nostra chiacchierata: non guardando ne’ troppo indietro e ne’ tantomeno avanti.
Quel che sarà sarà. Oggi, dopo aver realizzato un album che affonda le proprie radici nel blues, messo online questa settimana un secondo videoclip, preso parte ad un progetto transnazionale in Palestina, per registrare un disco politico dalle mille lingue, Kento ha appena annunciato che leggerà Garcia Marquez in teatro, a fine novembre, e intanto festeggia il suo compleanno.
È stato un anno intenso. Come in quella favola moderna, che aveva come protagonisti John Belushi e Dan Aykroyd, lui ha messo insieme la band. E la cosa ha qualcosa di angelico, per tradizione. Non a caso di si sono battezzati Voodoo Brothers e fanno blues. “Con Federico e David avevo già collaborato e gli ho esposto la mia idea. Loro mi hanno consigliato degli altri musicisti e ci siamo mossi assieme. L’unione è il valore aggiunto. Sono coesi e presi bene per il progetto: non c’è alcuna prima donna nel gruppo. E poi, pur venendo da generi diversi, hanno tutti degli ascolti hip hop, loro sanno i pezzi di Lou X a memora ed hanno un bel po’ di dischi di rap americano a casa. Eppure, abbiamo iniziato scambiandoci gli ascolti”. La parola d’ordine è stata condivisione insomma.
La prima cosa che hanno condiviso, a parte la passione per la musica, è quell’accelerazione centrifuga che li lega all’asfalto della Capitale e al centro della terra o di un mondo intero che tra i sette colli crea una prigione dorata capace di stimolare altrettanti sensi fino a trovare un punto di fuga per esigenza ed urgenza. Il luogo è importante. Ma sono importanti anche i curricula dei singoli membri: David “Shiny D” Assuntino (pianoforte, synth, piano elettrico, organo, voce dai Torpedo Sound Machine, Livity Band) e a Federico “JolkiPalki” Camici (basso, ukulele bass dai Torpedo Sound Machine, Honeybird & The Birdies), Davide Lipari (chitarra, armonica, voce dagli One Man 100 Bluez), Cesare Petulicchio (batteria, percussioni dai Bud Spencer Blues Explosion) e i Dead Shrimp, trio delta blues composto da Sergio De Felice (voce), Alessio Magliocchetti (chitarra, dobro, slide guitar) e Gianluca Giannasso (batteria, percussioni). Mica male come complesso di energie.
E poi nell’album ci sono un bel po’ di ospiti. Il padrone di casa li racconta così: “Ogni collaborazione ha la sua storia. Con i rapper sono state spontanee. Con Havoc dei Moob Deep è nata semplicemente: avevo aperto il suo concerto. Con Ensi avevo già fatto delle cose. Con Danno è stata una cosa sulla quale ci siamo trovati, tra l’altro su un beat di Ice One, come ai vecchi tempi dell’hip hop italiano, e romano in particolare. Le collaborazioni non rap sono state ancora più elettive. Con Impastato, per il racconto inedito, è stato naturale: Peppino è il protettore elettivo dei Voodoo Brother e non poteva che essere così, quindi Con Pietrangeli è nato tutto per una questione di stima, sebbene lui fosse contrariato nei confronti del rap, e, infatti, si è ricreduto; tra l’altro quando un tuo mito, come è successo con lui, ti chiede se la take è andata bene ti senti lusingato e capisci che stai facendo una gran cosa. Lion D è una persona talmente intelligente da rimanerne affascinati: ha una grande apertura mentale”.
Da questi scambi si comprende già tutto. C’è il background capitolino e hip hop. Il legato con i testi impegnati della nostra tradizione autorale e melodica. Il romando agli Usa. La lotta anti-mafia. E un pizzico di reggae a dare quel pizzico di sole che indora il tutto e lo lascia trasudare spiritualità.
La congiuntura socio-economica, tra l’altro, in questo periodo è favorevole. Anche Kento, sebbene sia più barricadero dei suoi colleghi mainstream, non ha dubbi. “Il rap italiano è vero che vende. Io sono lo stesso scemo che ero dieci anni fa ma riconosco di avere più opportunità: più concerti, in agenda eccetera, con tutto che sono underground. L’hip hop era un fenomeno globale da tanto tempo e l’Italia è in ritardo quindi. Finalmente, però, si dà importanza al logos, alla parola. E poi è orientato verso i giovani, con tutto quello che comporta. Ci sono cause che mi piacciano e altre meno, ma sono contento dell’andazzo. C’è da dire che la musica riflette la società nella quale vivono i suoi artisti, quindi il rap italiano è fatto di gente buona e gente meno buona o cattiva. E poi non è solo degli adolescenti, come la nazione non è fatta solo da adolescenti. Io vorrei puntare ad un pubblico che cresce o che è cresciuto con me. L’unico problema è che si può essere cretini anche a 40 anni e quindi ciò accade anche nel rap. Spero che il meglio debba ancora venire. Infatti, di ragazzini bravi mi capita di incontrarne sempre di più e, di sicuro, sono più bravi di me quando avevo la loro età”.
Una visione onesta. Del resto il rapper per lui non è un lavoro. E quando c’è passione si studia meglio. “Ho fatto una ricerca sui metodi di scrittura del blues e l’ho mischiato con la slam poetry, finendo per condividere il palco con Mark Kelly Smith. E mi si è spalancato un mondo”. Ma Francesco, che dietro lo street name cela un nome che lo accomuna ad un santo calabrese patrono dei marinai , di mari ne aveva attraversati un bel po’, alla spasmodica ricerca della verità. “Quando ho ascoltato l’hip hop all’Apolo Teatre di Harlem, ho scoperto che il rap è folk: sono saliti sul palo i Brand Nubian, Big Daddy Cane e ho scoperto il potere folk dell’hip hop; anche con il reggae a Kingsto, andando lì, ho imparato che più ti avvicini ai luoghi originari di una musica più ne cogli il legame fisico e antropologico, lo scopri nella sua nudità in sostanza”.
E a proposito di nudità, c’è da die, metaforicamente, che anche nell’hip hop l’abito non fa il monaco. “Se un brand ti regala t-shirt o scarpe non è perché ti vuole bene ma perché ti riconosce un potere, non è beneficienza. Marx diceva che la classe operaia sarebbe potuta scendere a patti anche col diavolo se il tornaconto fosse stato della classe operaia. Il rapper è la classe operaia”.
Il legame tra Kento e la politica si evince già dai titoli dei suoi album e delle sue canzoni. Prima di questa corale opera blues, ha inciso Sacco e Vanzetti e addirittura Stalingrado. Potrebbe bastare, no? Tant’è che quest’anno al Mei lo hanno premiato per il suo impegno contro le mafie. “Oggi gli interessi mafiosi sono più presenti al nord che al sud. Le radici sono nella mia Reggio Calabria purtroppo. Però oltre alla denuncia mi va di parlare di orgoglio e coraggio del sud, e non mi riferisco ai luoghi ma alle persone: come Dasud, il movimento No Ponte. Assieme a queste realtà politiche, mi permetto di includere anche i rapper che, dalle nostre parti, combattono le cose con le armi che hanno a disposizione”. Una risposta da manuale riciclata per i ringraziamenti dal podio? Potrebbe sembrare così, ma c’è una lucidità ulteriore.
Rispetto al passato oltranzista del rap militante e ai trascorsi dei rapper rosiconi che hanno rovinato la scena nei ‘90, c’è una maturazione che Kento rappresenta in pieno. Quale? In quel paesino clientelare che è oggi, più di ieri, il mercato discografico italiano, lui riesce a scorgere un barlume di luce, magai perché ha visto, più giù, cosa significhi davvero il buio. “Fortunatamente la mafia del rap ha poco a che vedere con la mafia vera, almeno in Italia è così e speriamo che duri”. Il resto è questione di moda. Ma non tutti sono obbligati a seguirla. C’è chi ha scelto altre misure. Espressioni in ottave che sposano Amiri Baraka quanto il Folk Studio. E anche se il blues non è poi la musica dell’allegria c’è da essere contenti. È una questione di maturità o di angelici voodoo, cari brothes and sisters.
Stefano Cuzzocrea