Ypsigrock: un festival che ha già salvato l’ignara Italia
di 2bePOP - 25 agosto 2014
È diverso. Arrivare a Castelbuono di giovedì è suggestivo. È il giorno prima della festa e ci si incontra in Paese, in giro per i ristoranti, come tra amici e parenti giunti in città per uno sposalizio, tanta è la familiarità. In Italia, a muoversi tra festival e concerti, sono sempre le solite persone e si finisce per conoscersi tutti. Figurarsi poi quando si è qui per l’Ypsigrock, una stanza ideale di un mondo ideale dalla quale, una volta entrati, non si vuole più uscire. Certi amori durano per sempre, nonostante eventuali dissapori su alcune scelte e qualche temporale. Tant’è che la crew è ancora assieme dopo ben 18 anni ed è molto più longeva di tante rock band, o forse è una rock band. Di sicuro il palco, quest’anno, dopo gli improvvisi diluvi dell’edizione precedente, ha una copertura, segno che il tempo, l’esperienza e la maturità possono anche sfidare altre regole, oppure che solo nel mainstream non piove e infatti, in questa estate climaticamente bizzarra, a Castelbuono splendono sole e amore, come se in scaletta ci fosse Valeria Rossi.
Ypsi & Love del resto è il sentore comune ed anche il nome scelto per il secondo palco, quello pomeridiano inaugurato lo scorso anno nel chiostro di San Francesco, fuori da piazza Castello. Il perché è facile comprenderlo guardandosi intorno: il festival è cresciuto. È la passione ad averlo nutrito, respirando l’aria delle Madonie, mangiando un gelato al gusto di entroterra, specchiandosi nei sorrisi, confortandosi nei sapori dell’ospitalità e soprattutto gustando le scelte musicali del cartellone si sceglie di tornare qui ogni dodici mesi, come se fosse casa della nonna, dove però vive anche lo zio scapestrato che ha tantissimi dischi fotonici. Ecco, ad arrivare un giorno prima sembra quasi che lo zio stia per prendere moglie, una moglie diversa ogni anno. Perché l’Ypsigrock è davvero un matrimonio con i 5 sensi, e non a caso indossa qualcosa di nuovo, qualcosa di vecchio e qualcosa di blues. Certe tradizioni vanno rispettate.
Sarà per via dei tre giorni nei quali si articola la programmazione del festival, o, nella più rosea delle ipotesi, perché qualcuno ha compreso il sentimento che fa vivere i concerti in piazza Castello, ma alcune testate titolano i loro articoli sulla rassegna con il classico “Al via la Woodstock siciliana”. Uno dei due direttori artistici, Gianfranco Raimondo, non ha dubbi: “L’unica cosa che abbiamo in comune con quei tre giorni di pace e musica è il fatto di essere economicamente entrambi votati al dissesto finanziario”. Ha 38 anni e nella vita fa l’avvocato, è un penalista però: uno di quelli che prediligono i diritti civili al diritto civile, o almeno è così per chi conosce le basi della giurisprudenza, pur ignorando chi sia lui. Si è inventato l’Ypsigrock assieme a Vincenzo Barreca, che nella vita fa l’agronomo. Sono entrambi nativi di Castelbuono. Tutti e due scappati da qui, con la scusa dell’università. Sì, perché, se pure chi viene per gli show ed il contorno esotico si innamora di questi luoghi, da un paesino di 4.000 anime, se si è ragazzi, non si vede l’ora di fuggire. Che poi casa propria resti nel cuore è altrettanto normale. Quello che, invece, è speciale è l’aver costruito, con tenacia e perseveranza, un evento talmente accurato da cambiare le dinamiche dell’intrattenimento culturale siciliano ed italiano, fornendo non solo la riprova di come si possa creare un format tale da competere con i giganteschi colleghi europei, basandosi proprio sulle differenze, ma oltretutto di quanto possa emanciparsi il rock in un posticino che ora considera la musica contemporanea una risorsa importante. I 18 anni dell’Ypsigrock sono questo: un esempio sostenibile di progresso e integrazione tali da aver dato un ruolo internazionale al festival, sul piano glocal, e un ruolo di prestigio cittadino ad uno staff che da qui non è più scappato via, per fortuna sua e di Castelbuono, sul piano local, quell’antica Ypsigro portata alla ribalta, col suo nome arcaico, a suon di rock.
“Tutto è iniziato perché amavamo la musica”, ci racconta Vincenzo. “Ai tempi Catania era in fermento ed io e Gianfranco conducevamo una trasmissione su Radio 104, a Palermo, che si chiamava Overground; abbiamo preso lì la forza e i contatti, anche grazie al proprietario dell’emittente, e nel 97 siamo riusciti a portare sul palco band siciliane, Le Valvole di Messina, i Totem e 180 In Opposity di Palermo, che hanno aperto la serata ai La Crus, i primi ospiti continentali in assoluto”. Questa è la genesi. Ma è un inizio come tanti e tutta la saga invece ha dell’eccezionale.
Peppe Rocca, che nella vita fa il chimico e per il festival si occupa di gestire il camping, è il gigante buono della comitiva e ci offre, difatti, uno spunto interpretativo disarmante: “Noi della crew siamo amici da una vita, siamo molto amici e siamo riusciti a dare concretezza a un ideale proprio con la tangibilità dell’Ypsigrock, che è una cosa nata e cresciuta nella e dalla nostra comitiva”. Ecco, dunque, il primo segreto: il confine ormai impercettibile tra sentimento e realtà. Un altro, meno romantico e più rock’n’roll, ce lo rivela Dario Saglimbeni, che mette le sua professionalità di ingegnere gestionale al servizio degli Ypsini e si occupa della logistica a vari livelli; lui ci racconta di un’altra componente essenziale della prima edizione: “La versione ufficiale è che volevamo fare qualcosa di culturale per il nostro Comune, quella ufficiosa è che eravamo sbronzi e ci è venuta l’idea di fare un festival”.
Qual è la verità? Probabilmente, come nell’equilibrio tra yin e yang, le dinamiche non sono univoche. La realtà però è che, come astutamente reclamizzava lo spot della 17sima edizione, l’Ypsigrock ha dei connotati propri che gli consentono di essere accostato nella sua squisita diversità all’interno della mappa che disegna l’itinerario dei festival europei. Fare delle risorse presenti un punto di forza e con i propri limiti altrettanto non è da tutti. Guadare il territorio, e non solo quello locale ma addirittura quello nazionale, con spirito diagnostico e individuare un modello possibile di rassegna, fuori dai canovacci, è una strategia vincente. Le costruzioni storiche scelte per incorniciare i concerti e i sapori tipici sono solo una parte delle attrattive, dietro la programmazione c’è uno studio accurato fatto in giro per il mondo, studiando le esperienze simili e quelle dissimili fino a sentirsene parte integrante, se pure dalla cima di un monte, su un’isola, sotto la suola di una scarpa. Lo dimostra la presenza di uno sponsor grosso, che veste le strade, il castello e la piazza, finanziando il programma come il brand è solito fare in contesti mastodontici tipo il Primavera Sound, dove lo stesso marchio veste un intero palco da anni. Certo, è diverso, ed anche il fascino esotico delle strade di paese ne risente, ma se la popolazione di Castelbuono in questi tre giorni raddoppia e la Regione non ci punta un centesimo, la necessità diventa virtù e il castello di Ventimiglia ha un nuovo signorotto. Il Comune lo ha capito eccome. I commercianti sono felicissimi ed in generale tutta la città ama la rassegna.
“Sono gli abitanti a fare il festival” rispondono a gran voce tutti gli organizzatori, orgogliosi di avere un ruolo in un posto che, com’è normale soprattutto nei piccoli centri, inizialmente era un po’ avverso al rock e che adesso si è completamente ricreduto. “Durante l’anno, gli abitanti ci chiedono a che punto siamo con l’organizzazione della prossima, ci suggeriscono nomi da portare in cartellone, ci ringraziano per avergli fatto scoprire una band che ha suonato qui l’anno prima”, ci spiegano ancora i ragazzi dello staff. Questa plausibilità, questo respiro sempre più internazionale e contemporaneamente finalmente compenetrato nel tessuto sociale degli indigeni di ogni età sono del resto alla base dello spot di quest’anno.
Chi si inventa queste azzeccatissime strategie comunicative? Maurizio Turrisi, ufficio stampa del festival, con l’onestà che gli si legge in volto, non si prende nessun merito e ringrazia Gianfranco, il (co)direttore artistico, e Marcella per le loro idee creative. Ecco, Marcella Campo, nata a Milano, 31 anni fa, da emigrati siciliani, è un altro tassello importante per comprendere l’Ypsigrock. Lei si occupa della promozione, è il suo lavoro a prescindere dal festival. Negli anni, da spettatrice è diventata parte della rassegna. “Avevo 20 anni ed è successo molto per caso: ero tra il pubblico, non avevo idea che ci fosse un movimento simile qui, e invece ho scoperto questa cosa, in più online c’era giusto un sito dormiente e piano piano, partendo dal web, ho iniziato ad occuparmi della comunicazione, loro del resto li ho conosciuti prima online; mi piaceva il progetto perché era, anzi è, folle, ma anche lungimirante e faticoso: portare in una provincia del sud, senza un contesto cittadino, artisti che in genere non scendono sotto Napoli e portare qui anche il pubblico è da matti, ed invece adesso c’è un paese che duplica i suoi abitanti per 3 giorni l’anno, solo grazie alla passione”. Il suo ruolo è stato reso più semplice dai Motorpsyco: “Fino al loro show, nel 2004, il target non era ben definito”. Da allora in poi è storia recente. Ma in questa contemporaneità c’è ancora Marcella, come simbolo della nuova era festivaliera: lei ha lasciato tutto e si è trasferita a Palermo, proprio per l’Ypsigrock.
A questo punto si potrebbe palare dell’edizione appena terminata. Della musica pop suonata dai Fanfarlo, che sembra avere un senso solo tra le colline di Castelbuono; oppure di quando gli Uzeda, nel Chiostro, ringraziano lo staff e sembrano consegnargli lo scettro, fatto di forma e sostanza, di un’eredità rock capace di cambiare la terra; si potrebbero contestare le vocali troppo aperte e ridondanti di Anna Calvi, tanto carismatica da influenzare con gli stessi fraseggi finanche la chitarra; sarebbe facile anche ripensare al pop di ultima generazione portato sul palco dal bravissimo Sohn, che non delude neppure live se pure ad alto volume fa sgamare meglio tutte le sue scale cromatiche da principiante; e ancora premiare la visione musicale di Forest Swords, la vera chicca modernista del cartellone; non disgusterebbe affatto neanche ripensare ai Moderat e al loro tentativo ben riuscito di far ballare l’intera piazza, oscillando tra l’idea di clubbing e la pretesa, a torto, di porsi come gruppo rock; certo, a questo punto ci assalirebbe anche il dubbio che gli M+A non fanno una grinza, ma lustri dopo gli Lcd Soundsystem e forse fuori tempo massimo; ma non si può parlare di tempo se, in un’ultima serata senza infamia ne’ lode, dopo Kurt Vile e i suoi Dire Straits senza chitarra, ci pensano Belle & Sebastian a ricoprire di miele il tutto, con Stuart Murdoch che lascia la scena per cantare in mezzo al pubblico, sulle gradinate, lasciando che la magia del castello incantato si compia anche questa volta.
Ma vale la pena fare un altro piccolo salto nel passato, prima. È sempre Maurizio a metterci sulle tracce degli elementi basilari di questa saga. È ancora lui a farci da cicerone, come per tradizione, dalla prima volta che abbiamo risalito la collina fino a scoprire questi piccoli segreti ben tenuti. Ed è lui a presentarci Mario Antonio Prestiani definendolo “una forza della natura, oltre che un pilastro dello staff”. Mario ha energie da vendere, anche alle quattro del mattino. E non ci viene difficile immaginarlo a litigare con gli operai della forestale, anni fa, dopo una nottata di lavoro; pare che alcuni automezzi non riuscissero a superare una curva, per via delle auto parcheggiate dei campeggiatori giunti a Castelbuono per il festival, e Mario, appena rientrato a casa dopo aver finito di adempiere i suoi innumerevoli compiti nella rassegna, sia tornato in montagna, vicino alle tende, e, rimproverando ai forestali la loro pigrizia negli altri 364 giorni dell’anno, gli abbia sottratto una motosega per tagliare degli alberi al fine di consentire il passaggio dei veicoli, mentre sorgeva una nuova alba sui monti di Castelbuono ed anche sul festival. “Da allora non ci hanno più creato problemi”, sostiene fiero. Dentro le sue parole c’è la saggezza popolare. Il pragmatismo di chi non si è mai arreso. Ha un fare taurino e braccia abituate alla fatica. Pare che si debba a lui se, da ormai 16 anni, il palco sia sistemato difronte al Castello e non ai piedi di quell’imponente struttura: “Mi è venuta l’idea di piazzarlo lì ed era già montato, così, senza chiedere nessuna autorizzazione, io e i ragazzi, tra le due e le sei del mattino, lo abbiamo smontato e ricostruito dall’altro lato della piazza, cambiando per sempre le consuetudini del Comune”. Da allora, dopo decenni, infatti, nessuna manifestazione ha osato contestare l’architettura della piazza e nessuno ha più messo il palco dove era stato sempre stato sistemato all’occorrenza, per qualsiasi manifestazione. Certo, ha meno eleganza del Wolf tarantiniano, ma il signor Mario Prestianni non è un tipo da fiction e risolve comunque problemi. Fa questo anche nella vita: dai lavori in muratura al giardinaggio, senza privarsi di essere un elettricista ed una brava persona. Si rammarica un po’ del fatto che i commercianti non contribuiscano a finanziare il festival, ma il verbo rammaricarsi non fa parte delle sue corde: è parecchio più diretto. Non a caso gestisce e aggrega 125 volontari che rendono possibile l’Ypsigrock.
Tra loro c’è anche Robertone. Al secolo era Roberto Di Girolamo, un palermitano, appassionato di musica, fin dalla notte dei tempi, tanto da farne il suo lavoro: “Ho avuto finanche un negozio di dischi”, ci racconta. Ha sposato una castelbuonese ed eccolo qua, da anni, a dirigere la sicurezza e tutto ciò che di logistico gravita sotto e dietro il palco. Un uomo tanto imponente quanto cordiale che rispecchia in pieno l’indole di quelle montagne che incorniciano questo laboratorio a cielo aperto e a cuore spalancato chiamato Ypsigrock.
Certo, non mancano i dissapori. Come quando arriva il temporale. Magari nel mainstream ora non piove, ma, dopo la pessima esperienza dello scorso anno, per il suo diciottesimo compleanno il festival si è regalato un palco coperto, sebbene montarlo in una piazza progettata nel 1300 non sia stato affatto facile o pratico. Ma l’esperienza insegna, tant’è che in Sicilia i festival si moltiplicano e scelgono scenari suggestivi per emulare i tre giorni di Castelbuono. I due sold out di questa edizione e i sempre più numerosi spettatori stranieri stanno già lasciando intravedere il poi, sebbene la piazza possa contenere un numero limitato di persone e quindi non lasciare che il festival riesca a crescere all’infinito. Perché, come dice Vincenzo, “Ypsigorck è piazza Castello e furi di lì non ha senso”.
Gli epiloghi, del resto, sono commoventi. C’è un ragazzo di 18 anni, un volontario alle prime armi, che indossa una maglietta della rassegna e dice fiero “Vincenzo e Gianfranco sono i miei miti”, ed avrebbe potuto sceglierne uno più pop dai giornali invece. Dunque il mondo riserva ancora qualche sorpresa. Come quando il chitarrista dei Mogwai scende dal palco dell’Ypsig piangendo, tanto è emozionato di suonare in quel contesto, così denso di amore universale. Pare sia stato il momento più bello di questi 18 anni, almeno per Vincenzo Barreca. Per il suo socio Gianfranco, invece, la cosa più suggestiva è ancora la foto con i La Crus, scattata durante l’edizione numero zero, con le sedie di plastica sul palchetto e l’atmosfera della sagra di paese, perché “è un po’ come vedere il proprio corpo che cambia da bambino ad adulto e crescere non è indolore, anzi”, confessa. Il futuro è già nostalgia, come da mantra ypsino? O magari è già pura malinconia, che è qualcosa di diverso…
Stefano Cuzzocrea
(foto di Milo Alterio)
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