U come Un giro sulla giostra
di 2bePOP - 14 aprile 2014
Un giorno G andò dall’oculista, o meglio, ce lo accompagnarono, visto che aveva 4 anni e l’occhio destro che tendeva allo strabismo. Luci verdi, luci rosse, lettere che si squagliavano tipo orologi di Dalì, che si invertivano e facevano le capriole, sfocavano e si focalizzavano, sforzandosi di fare ammattire anche il più paziente tra i bimbi catanesi. Ma G, tutto sommato era felice, perché aveva deciso che gli occhiali gli piacevano e che potevano diventare amici suoi. Si, quell’astronave senza passeggeri extraterrestri, in cui l’uomo col camice infilava vetri tondi come se fossero gettoni di un videogame, prima di chiedergli se ci vedeva meglio o peggio, G, non vedeva l’ora di averla tutta per sé, sul proprio naso, e poco gli importava se lo avesse aiutato davvero a non sforzare gli occhi vispi e dolci, che non potevano neanche lontanamente immaginare ciò che li avrebbe impressionati, nelle successive centoquaranta stagioni. Grandissima ed indescrivibile a parole fu la sua delusione, quando gli venne spiegato che quelli erano occhiali di prova, e che non avrebbe potuto tenerli oltre la visita: si sarebbe dovuto accontentare di un modello da ottico, normale, mediamente nerd, secondo quanto dettava la moda degli anni ’80 in corso d’opera. Già tramontava sul nascere il sogno ad occhi aperti che lo dipingeva come vera attrazione della Linus: grazie a quell’archibugio ottico sarebbe stato riconosciuto come unico amico conclamato della tribù di alieni destinata a dirimere le questioni cruciali che si sollevavano nell’asilo, in prevalenza riguardanti usi e costumi dei triceratopi e abitudini alimentari dei pterodattili in plastica, status symbol, orizzonte culturale e monete di scambio tenuti in massima considerazione dai membri della sua classe, e di conseguenza, anche da lui.
Un’infanzia di vetri infrangibili che miracolosamente esplodevano lo preparò ad un’adolescenza in cui l’ombra delle occhiaie si ispessiva sempre più violacea, cementificandosi con la sua erre francese in un immagine di sé che iniziò a odiare con tutto ciò che riusciva a chiamare a raccolta. Per fortuna ci fu lo sport, tanto, durante il quale doveva stare senza occhiali, calcio prima, atletica, pallamano, tennis, basket e pallavolo poi, che, nonostante il suo idolo, guarda caso, fosse quel fortunello di Paperino, lo fecero innamorare di Sport Goofy, Pippo in versione multisportiva.
Poi fu il tempo delle prime risse, già alle elementari, programmate metodicamente insieme ai compagnetti come sport post lezione e prima del ritorno a casa, nella mezz’ora in cui si aspettavano i genitori nel cortile della scuola. La cosa peggiore era la puzza di cane bagnato che promanava dal collo di Davide, indio autoctono, e l’alito al salame Milano di Jumbo, più simile a un polacco che a un abitante di Canalicchio, che però avevano il grosso merito di deconcentrarlo dai colpi subiti.
Lì le prendeva a più non posso, perché era gracile e ingenuo. Successivamente le cose iniziarono a cambiare: durante le dispute delle scuole medie, già iniziava ad affinare un discreto spirito belluino pur riportando raramente delle vittorie cristalline e in quelle nel parchetto del residence, riusciva stranamente a sopravvivere, tra una gara di sforbiciate volanti che planavano sul ribollente cemento d’agosto e una sfilza di nascondini primaverili, dove chi contava aveva la stessa possibilità di vincere di un cieco a pari o dispari e quando reclamava sulla giustizia dei bambini riceveva in cambio una lezione da adulti. Nei momenti liberi, guardava i grandi giocare a Subbuteo negli sterminati garage collettivi, e si stupiva sinceramente per l’uso in voga all’epoca tra i primi squatters d’Italia, cioè di vestire con mimetiche e anfibi, magliette stinte con la candeggina, inneggiare al Leoncavallo ascoltando Nick Cave e salutarsi con un bacio sulle labbra sempre bagnate di birra nonostante l’eterosessualità conclamata.
Quando arrivò la marea della precoce militanza “politica”, effettuata tra centri sociali e servizi d’ordine in cortei lungo tutto lo stivale, lì, finalmente, per nuotarci dentro senza annaspare, faceva coincidere il togliersi gli occhiali con il vitalismo più sfrenato, sposando un gesto apparentemente innocente con la violenza atta a segnalare la presenza di vita come un razzo nell’oceano, con le botte come forme di comunicazione, col democratico linguaggio dei cazzotti che, in breve tempo, riuscì a superare nella sua personale classifica mentale ogni altra forma di espressione artistica, salvo attestarsi in parità, dopo palpitanti finali al fotofinish, con le fornicazioni reiterate, le escursioni drogherecce e le letture non convenzionali.
Tutta la sua ciurma capiva quale fosse l’andazzo delle cose dalla presenza o meno degli occhiali sul suo volto, e il tenerli quando studiava, togliendoli quando menava, gli fecero sviluppare uno strano rapporto di amato odio con quelle lenti misteriose.
Col pugilato poi, ogni giorno per tre ore, cinque volte a settimana, era libero da tutti gli schemi, le paure, le costrizioni sociali e con loro, anche dagli occhiali.
Finalmente, quando compì ventitré anni, decise di toglierli del tutto, per spazzare quel sentore di inadeguatezza che lo avrebbe comunque avvolto per sempre. Quindi stabilì, forse senza saperlo pienamente, da che parte sarebbero cadute le stelle delle sue preferenze da quel giorno in avanti. Per dieci anni abbondanti fu il buio, rischiarato solo da qualche sogno d’amore e gioia che si arrampicava sui pendii della sua strana vita, pronto a svanire con la stessa facilità con cui si generava, simile ad una piroetta impossibile o a un amico immaginario, intrappolati tra le spire dei ricordi.
Un bel giorno, prima di trasferirsi a Ferrara, G prese una scelta: voleva di nuovo i suoi occhiali.
Un po’ per blandire lo sfregio sulla guancia alla sua vista prima ancora che a quella degli altri, un po’ perché, avendo ripreso a leggere tanto e con costanza sentiva fatica soprattutto la sera; forse in realtà perché, da profondo fautore dell’apparenza, come non può non essere qualsiasi amante delle figure, delle forme e delle parole che cercano invano di racchiudere l’essenza delle cose, per immaginarsi la sua sesta vita aveva bisogno di un puntiglio su cui far ruotare il perno del mutamento.
Insomma, ringalluzzito dalla sua nuova montatura Tommy Hilfiger, nerazzurra come i suo passato, tutto fiero di ciò che rappresentava, G prese un autobus per andare incontro ad Alejandro, che con la sua famiglia svedese di bambine milanesi mezze italiane e mezze argentine, tenute a freno dalla compagna romana, veniva a scambiarsi con lui i regali di Natale, due giorni dopo la natività, ma pur sempre prima di Capodanno.
G si trovava in quella strana fase di moralizzazione e autocentramento che inevitabilmente lo aveva accolto tra le sue incerte braccia, dal momento in cui aveva deciso di tornare ad essere un bravo bambino di 35 anni, ed era assorto in una delle sue perenni escursioni nell’universo visto degli altri, che comunemente approcciava anche tramite la lettura di libri, oltre che grazie all’antropologia da strada.
Un gruppo di ragazzini caucasici, autoctoni e mediamente decerebrati discutevano amenamente su un’ accusa infamante, rivolta ad uno di loro da una compagna di scuola “suL Fb”, e già la determinazione della L finale denotava- o detonava, non so cosa stia meglio- la riconosciuta pretesa del social network ad essere il Verbo dell’era 2.0, la parola sociale per eccellenza, cosa che infastidì non poco G. Lo stupore crebbe, ma neanche spropositatamente, quando i quindicenni, dopo aver fatto orecchio da mercante al conducente del mezzo pubblico che li esortava a lasciare libero l’accesso anteriore del bus, palesarono il motivo dell’accusa. “Jasmine dice che noi abbiamo torturato un cane, ma quella lo dice solo per far colpo, per attaccare bottone”. Neanche lui alla loro età era un campione di galateo con le fanciulle, ma le coetanee le ricordava piuttosto impacciate, più propense a spettegolare e ancheggiare che non a postare video porno con cui ricattare e indurre al suicidio le rivali in amore; e per quanto la vita lo avesse degenerato e poi risvegliato, vedere che i rapporti tra sessi adolescenti si muovevano sul palcoscenico degli orrori quotidiani fatti di maltrattamenti animali e sputtanamenti (dis)umani, lo incupì non poco. Forse i primi animaletti ad essere maltrattati erano stati loro, pensò filantropicamente G: loro, che prima di diventare carnefici, come esige la logica infallibile della trasmissione del sapere e del dovere, erano nati già vittime di un mondo che comprendevano con la stessa sagacia con cui un coniglio interpreta il faro che lo acceca in una curva nella notte, un secondo prima di rendergli la splendida vista dell’Eden della Carota Eterna.
I ragazzini lo sfidavano con lo sguardo, eccitati dell’attenzione rivolta loro da un borghesotto con aria da intellettualoide e sciarpetta a righe Armani: G virò i suoi occhiali a sinistra, a cercar pace.
Purtroppo, al posto di un unicorno alato pronto a portarlo in groppa, vi erano altri adolescenti, maghrebini, che, apparentemente incuranti dei propri coetanei biondi, intessevano pesanti biasimi su Ligabue, e guardavano G come se ne fosse il manager. “ A te piace Liga, vero?” chiesero a G, con una simpatia travolgente e candida che ricordava assai quella sfoderata dagli Hascescins di Forte Alamut durante le migliori razzie, con qualche secolo di fuso orario.
Esibendo il suo miglior sorriso pretesco, G rispose gentilmente che, sebbene a volte ne avesse canticchiato mentalmente i ritornelli, non era del suo genere preferito; così detto ruotò lo sguardo di ulteriori 90°, nella speranza di non incappare in qualche altra prova di pazienza.
Sfortunatamente, quello che sembrava il triste epigono di un raver fuori stagione, con tanto di piercing e cuffiette, doveva anch’egli essere un membro del club dell’ossimoro: un tatuaggio del duce gli si arrampicava su per il collo, lambendone le ducesche mascelle serrate, irrigidite dal labirinto in cui si trovava.
Eh sì, perché anche su di lui pendeva una gabbia invisibile, che lo schiacciava tra la la crew di bimbi Mtv, quella dei ragazzi selvaggi del Nord Africa, e G che cercava di non vomitargli addosso i suoi rigurgiti antifascisti: il quadretto paralizzante era per lui completato da un ragazzo nero di seconda generazione, bello alto e balotellesco, in procinto di concupire un’italica ragazza, probabilmente irretita dai millenari racconti sui big bamboos.
G inizio a vedere gabbie attorno ai ragazzini, a sé, al finto raver, al conducente, e alla coppia mista, per non concentrarsi sulle sbarre che opprimevano candidamente i due pensionati che facevano finta di non sentire il doppio simposio dei quindicenni. Il bus assomigliava sempre più a un tunnel degli orrori quotidiani o a una macchina del tempo camuffata che rischiava di portarlo ai suoi quattordici anni, quando sulla linea 36, a Catania, dei giovani lumpen lo deridevano per la sua mancanza di peli facciali, che incrociata con una chioma boccolosa alla Jim Morrison, lo rendeva efebico e detestabile, ai propri occhi come a quelli altrui.
La pressione stava salendo come un erezione mattutina, implacabile e legnosa.
G si tolse istintivamente gli occhiali, come quando si preparava allo scontro fisico, e fissò lungamente la crew di ragazzini biondi, e poi il fascio, e poi i muslim, o presunti tali, e poi se stesso nel riflesso del finestrino e quando loro sbiancarono, per un attimo si sentì libero, fuori dall’autobus e dalla società, dal passato e dal futuro, dai sogni e dagli incubi, dalla violenza e dalla comprensione.
Si alzò, e mentre si dirigeva con passo sicuro verso la bussola centrale, capì: che i suoi occhiali non erano sempre e solo apotropaici, ma anche e addirittura psichedelici. E la magia consisteva nel fatto innegabile che loro funzione non la svolgevano solo su chi li indossava, ma anche su chi li guardava dall’esterno. Senza occhiali e con il sorriso bloccato a mezza faccia, come per incanto, tutti i personaggi di quella piece avevano finalmente capito che dietro quel cappotto grigio perla e quelle lenti inforcate a malavoglia, si nascondeva un piccolo grande uomo dall’incazzatura facile, con le sue cicatrici, i suoi rimpianti, i suoi sogni, i suoi nervi e i suoi muscoli pronti a scattare in una morsa letale.
Il mondo si fermò, e con lui l’autobus, che, dopo aver dischiuso le porte, ripartì brontolando col suo carico di bestiame umano, ancora intontito dall’impercettibile cambiamento ma sempre intento a ruminare sentenze.
G toccò terra e indossò di nuovo gli occhiali, e stavolta, come per incanto, vide solo Ale, Benni, Olivia e Sole, con il beagle Juanita che gli correva incontro sotto il Castello Estense, e la giostra di piazza del Municipio che, seppur chiusa per la pausa pranzo, faceva il tifo per loro.
Gianluca Vittorio