Ypsigrock 2013 – day 1: tuoni, pioggia e Shout Out Louds
di 2bePOP - 10 agosto 2013
Parole di Marcello Farno
Foto di Serena Belcastro
Partirei dal senso delle cose. Alle sette di sera su Castelbuono si scatena una tempesta tropicale, l’acqua inizia a venire giù come non ha fatto mai in diciasette anni di festival. In meno di mezzora, il corso si svuota, la gente è sotto i cornicioni. Bevi questo cocktail annacquato fratello.
La prima immagine di questo Ypsigrock 2013 è bagnata, bagnatissima. Una cosa che il 9 agosto in Sicilia non ti aspetteresti mai e invece. Avrebbe ucciso chiunque, ma non se sei qui, in un festival che ha radici così profonde che nemmeno le misuri. In poco più di due ore si cerca di recuperare al meglio tutto quello che sta su questi argini sottili e rischia di esondare. Ci vuole forza & coraggio, come direbbe il poeta, e centoventi piedi e centoventi mani di gente che vive tutto intorno alla res pubblica. Alla fine si dilatano gli orari, si sposta una band (gli Youarehere) al giorno successivo, ma il grosso è fatto e l’ennesimo Ypsigrock può cominciare.
E dire che avrei voluto iniziare con la solita esegesi delle curve e del tracciato che separano Castelbuono da quel mare così blu che (lo sai) per dei pellebianca come noi rimarrà solo un miraggio. L’importante, ogni anno, rimane scorgere il castello da lontano, e poi con una carrellata rivederlo di pietra, grosso eppure così leggiadro, da sotto, coi piedi ben piantati a terra. Per quattro giorni un buco di culo tra la terra, il cielo e l’acqua di Sicilia che si trasforma in capitale d’Italia per quel che riguarda la musica suonata dal vivo con cognizione e spirito di abnegazione e lotta. Essenzialmente, anche se tra il pubblico molti fanno il risvoltino ai pantaloni e vestono shorts di seta, l’Ypsigrock rimane così rock’n'roll che ogni band ci arriva con gli occhi rossi e il sangue in testa. Dimostralo adesso a questa gente che ha così tanta fame quello che sai fare.
E ad alcuni artisti non devi certo ripeterlo due volte. Gli Efterklang sono i primi, elegantissimi. Lui arriva col bicchiere in mano e inizia a raccontare di gelo, morte e tempeste navali con l’aplomb di uno Stuart Staples qualsiasi. La band non è mai eccessiva, anzi delicatissima, con quello sguardo a metà tra l’indolenza e i sogni caldi del mattino.
Poi di nuovo il cielo torna a far cattivo tempo e passa più di mezzora prima che si riattacchino le spine. Con gli Shout Out Louds che trasformano pop, limoni e sindromi da eterna cameretta in qualcosa di totalmente epico. Il merito è di una band che ha un tiro fortissimo, due palle così, e che non si fa spaventare da una pioggia che nel bel mezzo del live torna a presentargli il conto. Tutt’altro. Si guardano negli occhi, ricominciano, spingono sull’accelleratore mentre sotto è una pletora di gente fradicia che continua a insudiciarsi. Quelle cose che accadono una volta e poi forse mai.
Devono averlo pensato anche The Drums, che, chiusi da due giorni nel backstage, si saranno dati il cinque e detto andiamo a giocare un po’ di maniera. E il peccato è che i ragazzini americani di canzoni belle ne hanno scritte veramente tante, e però dal vivo quel teen pop sbilenco e trasognato diventa qualcosa più vicino a degli orgasmi new wave dove si gode solo a metà. E sarà pure che ora il tempo è tornato sereno, però la gente sbadiglia. Piuttosto ci si scorge attorno in cerca di qualcuno di riconoscibile, e in mezzo a tutto l’esercito in esubero dei cantautori spicca in maniera improrogabile l’outfit subsonico di Samuel.
Peccato non salga in campeggio, anche se l’afterparty col prode ragazzo a 8bit Werto, e Fabio Nirta e Robert Eno, è stroncato dopo nemmeno un’ora e mezza per ragioni di ordine superiore e censura sonica da parte di campeggiatori che più che un festival probabilmente si aspettavano un reparto geriatria. Sarà per la prossima nottata. Timing permettendo.
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