Fat Freddy’s Drop @ Meet In Town (Roma)
di 2bePOP - 2 agosto 2013
Quando è iniziata l’estate? È da qualche anno che la bella stagione inizia con il Mit. Quest’anno, però, nessuna bella stagione, e dunque boh. Il festival, stanco di questo inflazionato appellativo, è tornato ad essere una rassegna e promette 12 mesi di appuntamenti mensili. Loro, quelli della produzione, un po’ hanno ragione e per il resto sono Snob. E allora il concerto del 3 luglio che cos’era? Prove tecniche di trasmissione? Uno sfizio rimasto a metà strada tra l’appetito e il metabolismo, come l’ovo sodo di Virzì, ormai da troppi Sonar? E anche se fosse cosa cambia? Il concerto dei Fat Freddy’s Drop è stato in ogni caso uno show degno di nota, una summa di tutte queste ipotesi, ed anche un caso esemplare.
Una band estasiante che paradossalmente necessita di un front man: di certo un wiggaz non può reggere il palco e neanche Joe Dukie, con tutta quella poesia soul che si ritrova, ce la può fare. Ma che razza di storia è, un gruppo capace di smuovere il mondo e di cambiare i gusti musicali della Nuova Zelanda, un complesso tanto perfetto che non ha in prima linea un uomo capace di destreggiarsi talmente bene, a livello di attitudine fisica, da trascinare la folla? Ok, ci pensano i brani, le canzoni, la bravura tecnica e tutte ste robe da manuale a smuovere i culi, tant’è che il pubblico dell’Auditorium romano molla le sedie alla prima nota, però il problema rimane. Cosa sarebbe stato degli Stones senza i balletti androgini di Jagger e che sorte avrebbe avuto il reggae se non ci fossero stati i movimenti in trascendenza di Marley, oppure il soul e il funk in assenza della schizofrenia motoria, e non solo, di James Brown? La storia è questa e il complesso che apre il Mit e l’estate riesce a riassumere tutti questi capisaldi sonori, fondendo i generi pur non avendo un leader.
Se fossero stati italiani avremmo dato la colpa al Pd, tanto per non cadere nella banalità di puntare il dito sempre contro l’altro ramo di sta pianta malata. La politica non c’entra? Strano: si parlava di festival, o no? Facciamo finta che sia vero, illudiamoci che tra palco e realtà c’entri Ligabue e non l’arte di dipingere bilanci e consuntivi, resterà, comunque, il fatto che nella struttura disegnata da Renzo Piano la decadenza romana non riesca ad entrare architettonicamente, ma che la città sia decaduta lo si nota al volo. Non è eterna insomma, tanto che l’entusiasmo e gli spalti infervorati dalla band restano poco gremiti. Eppure il Mit in genere ha avuto negli anni il peculiare problema inverso. A dire il vero anche il reggae nella Capitale è stato un vizio respirato a pieni polmoni e inspirato oltre che ispirato tra l’altro. Ma sembra che l’epilogo, almeno in questo episodio, abbia qualcosa in comune con Detroit anche senza pensare all’elettronica.
L’orchestra neozelandese, però, se ne fotte e mette in piedi uno show che lascia l’amaro in bocca solo per la durata: poco più di un’ora, contro la fama che, al contrario, li precede e li vuole parecchio duracel. Questo tour va così e per una volta non è solo l’Italia ad alimentare la crisi: Blackbird sembra ridimensionare il gruppo e portarlo a performance lontane dai prestigiosi 120 minuti, e oltre, ai quali ci aveva abituato. Anche a Roma la scaletta predilige le nuove canzoni al repertorio classico. Del monumentale Based On a True Story lesinano giusto un pezzo.
Magari saranno anche stanchi di cantare i brani che, ormai sette anni fa, li hanno portati a cambiare le classifiche e la musica pop in patria. La promozione è promozione e poi pare anche giusto pensare più al presente ed al futuro invece di fossilizzarsi sul passato, pur glorioso che sia. Del domani non c’è certezza, è vero, ma alla fine è comunque tutto perfetto. Un bell’inizio di un’estate pessima. Non manca nulla, neppure il vero frontman del gruppo. Chi è? Ma secondo voi le foto le rubiamo a caso? Insolenti…
Stefano Cuzzocrea