O come origine del mondo
di 2bePOP - 1 luglio 2013
Cos’è che accomuna Gustave Courbet, Youporn, il culto di Afrodite nella Grecia Classica, l’occhio di Dio inscritto nel triangolo della tradizione giudaico-cristiana, la cultura jamaicana attuale e l’Orlando e Rinaldo di Nino Martoglio?
Sono stato in visita a Parigi tante volte e, se si esclude l’ultima sortita, ho sempre fatto la vita del turista modello, o quasi.
Adoro la grandeur dei suoi quais e il perenne senso di displacement benjaminiano che riescono ad emanare anche quando l’orientamento razionale è registrato su perfetti binari topografici, i tetti color ardesia dei suoi sontuosi e perfetti palazzi borghesi, l’odore di Buci e il suo retrogusto di vino, champagne e ostriche, l’allure ossianica del cimitero di Père-Lachaise, il tragico meta-bohemismo di Montmartre, il melting pot o, per dirla alla francese, il pot-pourri di etnie e stili che percorrono le arterie della capitale come fosse lo scolo del pennello di mille pittori, ma soprattutto, visto che nonostante – o forse proprio per quelle- l’erre moscia e una madre che studia i fenomeni politici transalpini io non sappia sillabare molto più che cochon e maison, ne amo i musei, visti e rivisti più e più volte, come un bravo scolaretto volutamente ripetente, gli unici luoghi in cui per star bene e apprezzare te stesso che si riflette nell’arte, devi limitare al massimo la parola per aprire l’anima.
Non so quante volte sono stato al Musèe d’Orsay, sicuramente più che all’Orangerie e al Louvre.
Il motivo è assai prosaico. Quello che mi attirava lì come un apone che torna instancabilmente al suo favo preferito era la prima opera davvero rivoluzionaria del romanticismo pittorico francese, che per essere così avanti raccontò a pennellate della cosa più antica della Terra.
L’Origine du Monde. Una vulva. Una vagina. Fica, gnocca, pussy, pum-pum, patata, pacchio, sticchio, piccione, fregna, figa, mona, passera, fiorellino, a ciascuno il suo. Lei, la vera protagonista del museo, della vita, dei sogni e del linguaggio, non a caso Lacan l’acquistò e lo Stato francese l’ottenne solo alla sua morte, grazie ad Equifrance o al suo corrispettivo dell’epoca.
Incastonata tra i due livelli d’oro della cornice, appena dischiusa e sempre lasciva, placida e conturbante, miele e fiele, bastone e carota della corsa della vita, unico vero magnete universale, con un lenzuolo che ricopre il resto, quasi che la volgarità stia in ciò che attornia il buco primordiale. Come se l’unica cosa degna di essere raccontata con migliaia di saggi sulla genesi dell’umanità dovesse zittire tutto e tutti, lasciarli attoniti, sgomenti, di fronte alla propria origine, alla semplicità che presiede al complesso, all’unico che generò il molteplice, la cui resa iconografica costituisce ancor oggi il maggior tabù della civiltà occidentale che ostenta orrori e truculenza in un perenne Grand Guignol visuale, privandosi in nome di una morale proto- cristiana del rapporto con la sua fonte primigenia: la fica, appunto.
E se al bambino togli la marmellata, lui ufficialmente accondiscenderà annuendo placido, ma appena avrà un attimo di libertà farà di tutto per ficcarcisi con la testa dentro per farne la scorpacciata più lunga, dolce e indimenticabile che si possa sognare.
L’utilizzo quotidiano dei portali porno del mondo costituisce un indiscutibile dato di supporto all’eterna volontà maschile di possedere sempre il sesso femminile.
Uno e trino perchè si è fedeli o in numero di mille perchè si è single convinti, in maniera dolce e sporadica in intimità- backstage- o con i modi compulsivi della fruizione pornografica -performance- , per parlarne in giro al bar da ubriachi “galli” brancatiani o per raccontarlo a se stessi nell’umido onanismo da bagno, altro non si cela se non la tenera volontà di eterno ritorno all’unico luogo di felicità conosciuto prima dell’espulsione in questo o in altri mille mondi di merda: il ventre materno, dove si sguazzava beati senza pensare a Berlusconi avendo letto Sartre, ai limiti della conoscenza e al mutuo di fine mese, ai capelli che imbiancano e ai denti che scappano, tramite l’unico cancello possibile, che per sua e nostra fortuna sa bene di essere fatto di petali seta e imbevuto dell’ambrosia che ubriacava l’Età degli eroi.
Il culto di Afrodite permea secoli di storia ellenica, e sacrificarsi a lei voleva dire basare la propria esistenza sulla sessualità femminile, riservandosi pre-romanticamente il potere di assoggettare a sé i destini di esseri divini, semidivini, umani, e sub-umani, in un simposio continuo, bacchico, priapistico, e infine orgiastico. In poche parole significava voler scrivere la storia, nel suo intrecciarsi con l’epica, la letteratura, la musica, l’arte e l’architettura che avrebbero condizionato il globo terrestre per una trentina di secoli a venire e le manifestazioni degli uomini che lo hanno alternamente popolato.
Il simbolo triangolare con occhio inscritto, emblema dell’onniscienza divina della tradizione giudaico-cristiana, ne è la sua sempliFICAzione iconograFICA: c’è saggezza solo lì dentro, nella pupilla che guarda ma all’interno dell’equilatero che la domina, per questo la Chiesa ha sempre temuto l’organo genitale femminile più di Lucifero. Perchè se si sta bene in un posto, la meditazione viene da sé, si rischia di poter pensare profondamente e raggiungere la somma conoscenza, e si peccherebbe di ubris, di tracotante volontà di avvicinarsi al divino, si toglierebbe a Dio il copyright del sapere, e addio mortificazione terrena e millantato divertimento post-mortem, addio soggezione di masse di creduloni che predicano bene e razzolano malissimo, addio sepolcri imbiancati e preti pedofili, addio insomma, al potere temporale e allo Ior, alla cappella Sistina e alla magnifica croce gadget in omaggio per tutti i lettori.
I jamaicani, rivisitatori edonisticamente e naturalmente caraibici dell’Antico Testamento, di cui è sommo esempio esempio il Kebra Negast, hanno decretato che la massima pena in e sotto terra dev’essere riservata agli abitanti di Sodoma e Gomorra, poichè massimo godimento tocca a chi coltiva la passione per la punanny come se fosse una divinità a sé.
Tutta la loro recente cultura, dalla testualità dellle liriche musicali, alle forme di ballo super porno che imperversano nell’isola e nelle sue repliche mondiali, le dance-hall di tutto il pianeta, è incentrata sull’origine del mondo; lì in Jamaica che sai quando esci di casa ma non sai se torni, là che la linea tra Eros e Tanathos è assai più labile delle labbra piccole o grandi, dell’Origine del Mondo, apprezzare e divinizzare l’origine è un po’ come esorcizzare la fine.
Saltiamo da un’isola all’Isola sulla la nave della poesia, quella che va veloce come l’intuizione e dritta come la luce; Nino Martoglio, antropologo di fatto e poeta di vocazione, ebbe a scrivere, circa un secolo fa, la storia di Orlando e Rinaldo, rivisitata e condita alla catanese:
“Vidìti quantu po’ ‘n pilu di fimmina!
Dui palatini, ca su du’ pileri,
per causanza di la bella Angelica
su addivintati du’ nemici féri.
Ecculi in campu, unu contra all’autru
ca cercanu mangiàrisi ppi lupi
avi quasi tri jorna ca cummattunu…
- Oh, non è cosa d’opira di pupi…”
Per noi siciliani, che di tarantelle intorno alle fanciulle ne abbiamo create, vissute, dimenticate, scritte, e continuiamo a farlo con enorme orgoglio, per noi che alla vita come rappresentazione abbiamo sempre preferito la rappresentazione come unica forma di vita, e l’Iliade ci ha condizionato più di quanto sia stata letta, per noi, grandi e maschioni per non essere piccoli e mammoni, burattini senza fili in secula seculorum, per noi che esageriamo sempre tutto nella vita e ridimensioniamo nel cartaceo per falsa modestia, i tre giorni di Orlando e Rinaldo in realtà non finiranno mai.
Gianluca Vittorio