Diario di un Tano, lettere dal Sudamerica (# 8)

di 2bePOP - 17 giugno 2013

claudioHo abbandonato di corsa la casa di Floresta per trasferirmi in un quartiere più bello, movimentato, vivo e centrale. Si chiama Almagro, è una delle zone più tanghere della città e ci sono tanti bar e una terrazza da cui scrivo. Sono arrivato ieri sera nella nuova casa, pieno di bagagli e speranze. Queste ultime si nascondono però dietro lo scudo dello scetticismo che mi hanno insegnato le relazioni sociali in questa città. L’entusiasmo c’è, anche se affiancato da altri sentimenti più cauti. Forse un cammino più tentennante eviterà il fraintendimento di atteggiamenti diffusi, che l’occhio non abituato scambia per promesse di amicizia quando invece sono un’altra cosa.

C’è un tratto curioso e particolare dell’Argentina: la buena onda. Quasi tutti gli stranieri conosciuti finora concordano in questa cosa: a Buenos Aires è molto facile conoscere gente, parlare e ridere con un ragazzo o una ragazza appena conosciuti, entrare in contatto con chicchessia. E però si tratta di rapporti superficiali che poi si fa molta fatica ad approfondire. A me pare che in questo posto ci sia un’esasperazione del calore mediterraneo, elevato alla seconda e moltiplicato per diciotto.

Un ragazzo francese trentenne e divertente conosciuto in Uruguay dice che gli argentini non sanno dire “no”. Anche secondo me: piuttosto non rispondono a una chiamata o a un messaggio, ma un rifiuto gli costa troppo. E dice pure, Mohamed, che non sanno dire “non lo so”. Anche questo mi sembra vero, e una delle manifestazioni di questo carattere diffuso si riscontra nelle strade, quando tra una cuadra e l’altra si chieda a un passante il nome di una via o di una piazza (anche se tutte queste piazze non ci sono). Il passante si ferma – si fermano tutti, sono gentili – e ci pensa un attimo. Se non lo sa, sul volto gli si imprimono uno sguardo pensoso, rivolto verso l’alto, e una fronte corrugata. Poi abbassa lo sguardo verso di te, divarica le braccia, scuote la testa come a dire “no, no”; quindi assume un’aria abbattuta e sconfitta e ti dice: me mataste, la verdad es qué no sé. Lo dice come una confessione cui si arriva quando non c’è nessun’altra risorsa a cui appellarsi, cosa buffa e significativa allo stesso tempo.

Quindi se la tirano un po’, questi argentini. In compenso è molto bello poter scherzare con l’autista, il panettiere, l’amico dell’amico, con una facilità per me inedita. Solo bisogna stare attenti a non dare frettolosamente in mani incaute la propria vulnerabilità, fraintendendo atteggiamenti calorosi. Una danese abituata al freddo, a sorrisi un po’ più rari e voci più pacate prendeva questi atteggiamenti come manifestazioni di un’amicizia che invece non c’era. Così come l’argentino che arriva a Parigi e pensa che siano tutti freddi.

Nelle relazioni umane c’è poco posto per la vulnerabilità. E’ come se un imperativo che comanda allegria dominasse la città e forse il paese tutto: bisogna divertirsi, bisogna stare bene assieme, mai perdersi d’animo e tirare sempre avanti: la buena onda, appunto. E invece bisogna anche poter essere tristi assieme. Sono vecchi stereotipi che si ripropongono sotto forme diverse.

La sessualizzazione della società magari ve la appioppo un’altra volta. Ma c’è, anche se all’inizio non sembrava. E’ una società diversamente machista. Uno si aspetta il macho tautato e duro e la donna poco emancipata e messa in disparte (sì, lo so, se uno se la immagina così vuol dire che è un po’ coglione. Ma vabbè, è un idealtipo cui la realtà non aderisce mai del tutto). E invece no. Il fatto è che c’è una separazione tra i sessi, ma anche tantissimi contatti, e continui, tra ragazzi e ragazze. Quindi uno quando arriva pensa che no, non è vero che è una società maschilista. E però i ragazzi hanno amici maschi e le ragazze amiche femmine, anche se sono tutti tanto spigliati. Si generalizza un po’, ma neanche troppo.

Qualche giorno fa sono scappato dall’atmosfera pesante ed estranea della casa della nonna di Pilar, per andare in Uruguay a vedere le stelle e un posto molto bello che si chiama Cabo Polonio. E per rinnovare il visa, visto che qua sono un turista, e prima che scadano i novanta gironi è bene che mi tolga dai coglions. Sono andato solo, per fare un viaggio alla ricerca di non so che ma dal sapore vagamente mistico. Volevo ritrovare nella natura l’ambiente adatto ai grandi conflitti interiori e agli incontri dell’anima con l’assoluto, per approdare infine alla leggerezza agognata. Ovviamente poi non è avvenuto nulla di tutto ciò, manco a dirlo.

Sono partito una domenica mattina. Nonostante abbia perso un traghetto e la carta di credito, in un giorno grigio e piovoso che ha provato a impossessarsi della mia anima, un’insospettabile (mica tanto) mentalità imprenditoriale, faccendiera e commerciante mi ha tirato fuori dai guai economico-esistenziali, spingendomi verso cieli tersi e azzurri. Ho chiamato a Parigi, Gabriel e Martina mi hanno inviato euro che poi sono diventati dollari e che poi, al ritorno, ho rivenduto in Argentina al mercato nero della valuta estera, litigando sul prezzo con un impiegato di una società che si occupa di operazioni finanziarie e che stava dietro uno sportello in una stanza piccola e bianca, con un orologio argentato e brillante e una testa pelata e lucida. Così, con i soldi in tasca e un peso in meno sono passato da Montevideo e sono andato in un villaggio sperduto chiamato Valizas. Lì dovevo andare in un ostello che costava quindici euro ma che dopo qualche lite telefonica avevo portato a dieci. All’una e mezza di notte però la porta era chiusa, e né i pugni battenti contro le porte di legno né gli abbai di due cani da guardia sono bastati a svegliare un portiere stanco e addormentato. Per fortuna ho trovato una stanza aperta che dava sul cortile interno, dopo essermi appoggiato per sbaglio a una porta socchiusa. C’erano otto letti vuoti, così ne ho eletto uno e mi sono abbandonato al sonno. L’indomani sono partito alla volta del Cabo Polonio, una delle punte dell’oceano sterminato e blu, con uno zaino rosso e pieno di roba e una passeggiata di dieci chilometri davanti a me. C’erano spiagge lunghissime, dune che ricreavano il deserto così come lo si immagina. E poi rocce, monti e qualche fossile di tartarughe morte chissà quanto tempo fa. Ho dimenticato di portarmi l’acqua e non avevo un cappello. Per fortuna il traghettatore che mi ha accompagnato dall’altra parte di un guado incontrato giusto all’inizio del cammino m’ha messo in guardia, e mi sono avvolto la testa con una maglietta bianca. C’era vento, la sabbia era gialla gialla e si muoveva da una duna all’altra. Ed era dura, le colline di sabbia si attraversavano facilmente. Ho incontrato due cani, due persone e degli uccelli bastardi che m’hanno attaccato a metà strada e per un quarto d’ora. Ho avuto paura, per più di mezzora ho appoggiato i cacciatori di tutto il mondo e maledetto la natura matrigna e la tensione che avevo in corpo. Dopo qualche ora però sono arrivato in questo posto dove ho visto foche, gente accogliente, delfini, zanzare e una microalga fosforescente che di notte trasforma la schiuma delle onde in acqua elettrica. Noctiluna, si chiama: incredibile e bellissimo.

Gli uruguaiani vanno in giro con un termos pieno d’acqua calda sotto il braccio per bere mate in ogni dove e in ogni momento. Sono calmi, pochi, hanno l’istruzione pubblica e gratuita e la sanità pure. E ora stanno legalizzando la marijuana. E hanno Mujica come presidente.

Volevo parlare di Guillermo, il mio psicanalista, ma lo farò meglio un’altra volta. Dico solo che mi riceve in una casa che odora d’incenso, ha quadri con simboli della pace appesi al muro ed è sempre avvolto in penombra più caricaturale che inquietante. In questa casa c’è il divanetto – ma non è rosso – e le prime volte che uscivo da lì mi risuonava in testa la musichetta di Take Five. A volte dice cose interessanti, a volte no. Io mi aspettavo uno psicanalista totalmente freddo che alla domanda “come va?” avrebbe ribattuto “non sono nella posizione giusta per rispondere”. Invece lui ride alle mie battute, all’ironia con cui combatto la pretesa della psicanalisi di spiegare tutto con la madre e la struttura familiare. A volte sono un po’ troppo superbo, ma è una ribellione spontanea di fronte a una figura che dovrebbe dire di te qualcosa che tu non sai. E’ il magico mondo dell’inconscio e dei suoi professionisti. Comunque lui è molto interessato e facciamo sedute che invece dei cinquanta minuti ordinari durano un’ora e mezzo. C’è il diversivo dello psi, a Buenos Aires. Allo psi bisogna dire tutto, senza inibizioni. Così io gli ho chiesto di farmi vedere il titolo di studio, visto che non era appeso in casa e che poteva essere un truffatore qualsiasi. Poi ho riso un po’.

Ho conosciuti vari colombiani e mi danno l’impressione di parlare in spagnolo con un forte accento veneto. La cosa mi fa ridere molto, ma quando glielo spiego mi guardano perplessi.

Immagino il freddo dicembrino in Europa, e lo comparo col clima di qui. Sono in pantaloncini e maglietta, ho un ventilatore accanto al letto e una piscina di plastica in terrazza. Mangio spesso gelati, qui li fanno molto bene. E vado in giro coi sandali che non si sa se siano francescani o da centurione. Ho trovato lo scrittore della mia vita, si chiama Saer ed è un genio che tocca praticamente tutte le questioni che mi interessano. Il tango non lo sto ballando, è il ballo più disciplinato di tutti e sto cercando l’esatto opposto.

Ora me ne vado a fare un aperitivo quaggiù, sotto casa.

E scusatemi per la lunghezza, ma, come diceva quello lì, non ho avuto il tempo di essere più breve.

Un abbraccio collettivo e circolare ma sincero e forte,

Claudio