Io, Nau, gli alieni, il cyborg e “Forward”
di 2bePOP - 13 giugno 2013
Che nervi. Se c’è qualcosa che riesce a frustrare chiunque ami la musica quella è il jazz. Il jazz frustra chiunque tranne chi lo suona. Chi lo suona si libera, anzi è libero. I jazzisti, quelli bravi e non in cartacarbone, hanno un arto in più: un braccio a forma di contrabbasso, una mano-sax, cose così. Talvolta hanno 88 dita delle mani. Stabiliscono un rapporto talmente intimo con il proprio strumento da diventare un’unica creatura. Sono cyborg assemblati da mamme e liutai per distruggere le regole e mutare la genetica.
Non so se il jazz sia, quindi, il demonio o più un parente prossimo di E.T., e neppure Spielberg lo sa, però pare che non siano stati gli afroamericani ad inventare questo stile ma gli alieni; tant’è che le copertine di George Clinton lo testimoniano in formato fumetto da decenni. Ecco perché esiste quell’afrofuturismo che ha finito per disegnare i tratti della techno in quella Detroit che aveva assimilato già il jazz, il p-funk ed anche il primo prototipo di punk. Bastardi. E nel vero senso meticcio del termine dunque. L’unica maniera per ignorare il senso di subalternità che deriva da questo essere meri ascoltatori e discendenti di dinastie unicamente terrene è ignorarlo: non ascoltare il jazz e fare finta che sia una roba da ricchi, degustazioni, giacche, cravatte, mocassini, bottiglie costose e fighe di legno. Poi però, quei bastardi dei jazzisti ti vengono a cercare ed è finita la festa.
In questi giorni odio quei gran figli di puttana della Nau Records. Non solo mi hanno spedito questo album, “Forward”, ma chiacchierando con il boss della label sembra che il mood di queste tracce, quell’atmosfera cittadina di crossover, sia solo l’inizio di un percorso che li porterà ad essere ancora più aperti, o addirittura a sposare l’hip hop. E allora addio al relegare tutto nello chic del tradizionalismo e via allo sprofondare nel complesso di inferiorità rispetto ai cyborg con le trombette.
Maledizione. L’unico modo per contrastare questo confronto dal quale si esce sconfitti a priori è accettare di fargli qualche domanda. Il segreto è fingersi buoni e poi colpire alle spalle, un po’ come se fossi un giornalista televisivo che tradisce, grazie al montaggio, e sferra il colpo micidiale giocando a travisare. Del resto da giovane sono stato un telespettatore anche io, cosa credete.
E allora trema, caro Gabriele Buonaosorte, e spiegami perché proprio il jazz. “Perché Jazz e improvvisazione sono due facce della stessa medaglia, due aspetti della stessa cultura musicale; nella mia musica l’improvvisazione ricopre un ruolo fondamentale, quindi utilizzare la parola jazz per provare a definirla era inevitabile” mi risponde l’autore, perpetuando quel divario tra me, non musicista, e lui, virtuoso e libero agilista della musica.
Sto già per sprofondare nel malessere di chi sarà costretto al doooo del solfeggio. Eppure ho la forza di reagire che mi viene dal doh! di Omer Simpson e da anni, pre gastrite, passati a suonare le pinte al bancone. E via con la seconda domanda: quel sound così audace di Forward ha un’aria urbana accentuata, è tutta farina del tuo sacco o è l’aria che respiri? “Tutti i brani nascono da un’immagine del mio vissuto tradotta in musica. Mi piace molto raccontare immagini di luoghi, di situazioni e le emozioni che ne scaturiscono. L’aria che respiro ogni giorno è ahimè quella della grande città, con un pizzico di nostalgia del profumo di mare”.
Ah, ecco, la nostalgia: ho scoperto un punto debole. E poi c’è la presentazione del disco a Siracusa, in un anfiteatro addirittura, alla faccia della modernità; gli chiedo proprio di questo salto temporale e provo a sistemarlo. Ed eccolo sincero come solo un terrone sa fare: “A Siracusa è iniziato tutto, ho cominciato a suonare il sax, ad ascoltare il jazz. Tornare oggi a Siracusa ha per me un significato importante, da musicista professionista, con un progetto organico, strutturato, con una band fantastica, una produzione alle spalle: tornare lì rappresenta un nuovo inizio, per ripartire di nuovo, per far vedere quello che sono diventato”.
La risposta è degna del qualunquismo di un film diretto da Virzì, anzi a pensarci bene è la risposta al qualunquismo con il quale quel regista ha descritto i giovani siciliani; cazzo, sto jazzista l’ha spuntata un’altra volta, a meno che io non rinneghi me stesso e diventi Calderoli. Preferisco la frustrazione dell’essere un non musicista a quella di essere un bifolco però. Eppure voglio capire se sa di non avere inventato nulla; ecco il quesito: definire il vostro sound free jazz è una trappola: si sente che siete comunque ancorati ad alcuni ascolti particolari: oltre al funk, al reggae, chitarre flamenco, ci sento addirittura un pizzico di new wave , o no? “Non credo ci possa essere una definizione di genere che possa racchiudere il sound di tutto l’album, non a caso ho scelto un camaleonte a rappresentare il progetto. Hai ragione, ci sono sonorità funk, reggae, ambient, new wave, ma anche rock, prog; Forward infatti è una miscellanea di emozioni: rabbia, malinconia, coraggio, felicità, affanno, ironia”. Me l’ha fatta.
Non mi rassegno però, voglio capire se è uno dei conservatori o un progressista: potrei attaccarlo dal punto di vista politico, almeno, e chiamarlo Alemanno de La Scala magari.
Dunque parto con il punto interrogativo decisivo: In tutta questa varietà di suoni, ritmi e impressioni io noto un’unica audacia di fondo: il bisogno di inseguire la contemporaneità, o mi sbaglio? “Assolutamente no: sono un musicista del terzo millennio ed ho intenzione di suonare moderno. La mia musica è frutto di ascolti e idee moderne, con un occhio al passato, ma con lo sguardo al presente ed al futuro”. Ecco, lo sapevo: ha tre occhi. È un fottuto Cyborg figlio di puttana…
Stefano Cuzzocrea