Primavera Sound 2013 (giovedì 23 maggio)

di 2bePOP - 24 maggio 2013

phonenix primavera sound 2013

foto di Serena Belcastro

Piove. Roma è sommersa dall’acqua e il volo non può atterrare. L’arrivo è previsto due ore prima ma noi italiani siamo abituati a ritardi ben maggiori, soprattutto paragonando i nostri festival con il Primavera sound di Barcellona. Andiamo tutti lì. Tanto che l’aereo sembra una gita scolastica, ci conosciamo tutti o quasi, sebbene siano incontri casuali. L’aneddoto potrebbe sembrare trascurabile ma non lo è affatto: quest’anno lo staff ufficiale è affiancato da un ufficio stampa del Belpaese, Sfera Cubica, è questo la dice lunga sulla notorietà del pluridecennale cartellone dalle nostre parti. Nulla succede per caso: pare che i mangiaspaghetti in Spagna siano la comunità più grande, indigeni a parte, superando per numero finanche i pakistani, quelli che vendono le birre ovunque, per strada. A proposito di luppolo: lo sponsor alcolico numero uno, San Miguel, ha ceduto il posto all’olandese Heineken, segno che la questione trascende più che mai la nazionalità. E a proposito di nazionalità: tra gli italiani in Spagna vengono contati anche molti nati in Sudamerica, Argentina in testa, ecco perché il primato, immeritato come quello delle band nostre band di suonare al festival: quelle in cartellone non sono né rappresentative della scena e né rappresentative della scemenza diffusa in classifica. Restiamo tra color che sono sospesi. Del resto l’importante, tanto, non è la caduta ma l’atterraggio e la speranza è l’ultima a morire.

Ecco, la speranza. Gliela si legge in viso ai Wild Nothing. Hanno le sembianze di bimbi, di bimbi che stanno realizzando un sogno. Hanno gli occhi smarriti di chi non si sente ancora troppo all’altezza. Iniziano con un fare più da maldestri e timidi che da belli e dannati. Eppure ce la fanno: dopo tre pezzi lasciano gli indugi e guardano in faccia la realtà: hanno un tesoro tra le mani e lo intonano con quel fare chill wave tipico del sogno o son desto. Inteneriscono insomma. E in più hanno il buon gusto di intervallare con altri brani il loro Nocturne, che alle 6 del pomeriggio rischiava di essere troppo fuori luogo.

Il luogo della musica invece è questo. Il brutto del Primavera è che spesso i concerti sono in contemporanea gli uni tra gli altri, dunque ci si perde sempre qualcosa. Programma alla mano è bene farsi un itinerario e correre da una parte all’altra. Una sorta di sport per patitissimi.

Cosa ci siamo persi? Molti degli show sui palchi minori e un po’ di quelli del più interessante tra quelli piccoli: il Pitchfork; del resto se Four Tet suona in contemporanea con gli Animal Collective e l’ubiquità è un dono che Babbo Natale ci ha rifiutato anche quest’anno come fare? Da quelle parti, quelle hipster per eccellenza, ci siamo andati giusto per un paio di cosette: le Saveges e i Fucked Up. Le prime sono davvero brave, come le patate più gettonate insomma, ma si parla di tapa e non di topa sia ben chiaro. Certo, le ragazze, se pure suonano benone, pare siano un po’ ferme al 1977, nonostante la giovane età. Hanno un sound a metà tra i Gang Of Four e i Pil, senza nessuna intromissione filo-moderna, anzi con un cantato che a livello fonetico ricorda Patty Smith, la Smith senza ancora la canottiera intrisa del sudore di Springsteen però, comunque lei. Sui Fucked Up un velo pietoso: se la band ricorda una versione sgangherata dei Mogwai, con disaccordi e monotonia a sancirne le distanze, il leader è la parodia dell’hardcore; fa scenette e tenta di far ridere, insomma si sbatte assai e non fa il suo lavoro. Tutte chiacchiere e distintivo, per citare un film già visto troppe volte.

Chi invece non si vede quasi mai live sono i Postal Service. Eccoli i redivivi: ci sono anche loro come promesso. Pop d’autore tirato a lustro per l’occasione con qualche orpello dance. Eleganti, gustosi e lavativi: l’unico che si dà un gran da fare è James Tamborello. Gli altri cantano e basta, se pure ogni tanto si fingono polistrumentisti e fanno scena. Eppure vale la pena seguirli in questa impresa. La prossima volta potrebbe essere l’ultima, non si sa mai.

Si spera invece che non sia mai l’ultima canzone in scaletta al concertone dei Tame Impala. Non tutto il vintage vien per nuocere, anzi. Who, Beatels e Rolling Stones, questi i caposaldi di ciò che li ha ispirati. Giusto tre nomi trascurabili insomma. E per di più i giovanotti si dimostrano all’altezza di questi paragoni esagerati. Straordinari nella normalità del rock. E scusate se è poco.

È ancora poco invece per i Death Grips. Di loro si è già parlato su 2bePOP due giorni fa, ma un festival non è un club e tornano a casa con un risultato effimero. Intanto sul palco principale Grizzly Bear c’è un bagno di folla. Impeccabili lo sono, soporiferi a tratti. E poi il tragitto fino al palco dei Phoneix è lungo e il tempo pochissimo.

Viva la France. Mentre il mondo parla e sparla dei loro parenti Daft Punk la band di Thomas Mars ha sfornato un nuovo album tanto bello quanto trascurato. C’è spazio però anche per le vecchie canzoni nel loro set. Inizia con uno sfondo rosso di passione. Prosegue con più passione ancora. Pop, e che male c’è? Sì, anche perché il rock sembra la loro arte del riarrangiarsi. E c’è pure il tempo per un gran finale: una sorta di stage diving che distoglie l’attenzione dal palco, dove J. Masics suona la chitarra lontano da occhi indiscreti, corso lì dagli amici dopo la performance con i suoi Dionsaur jr. Due gran finali in uno in sostanza.

Un altro gran finale è quello sul main stage. Arrivano gli Animal Collective e la loro scenografia africana. Tribalismi. Dubbetterie. Citazioni dei Clash a livello di outfit. L’unica pecca è che il quartetto, perso in un viaggio personale, concentrato sulla propria evoluzione, perde di vista la platea. Rimedierà con My Girl reinterpretata a metà scaletta, contrariamente al vezzo di non suonarla spesso dal vivo per snobbismo finanche verso se stessi. Benone. Tutto perfetto. Tutto tanto perfetto che ci si aspetta un’intrusione dei Daft Punk sul palco. Ebbene sì: anche qui se ne parla troppo. E comunque non solo non soggiungono i robot lì in Tanzania ma non arriva neanche il bis.

L’unico a bissare è Talabot. Conclude lui la serata ma in dj-set. Ormai abituati a vederlo fare il musicista ci si rimane male, anche perché il prestigioso dj dell’Apollo fa un set degno della migliore serata a L’oasi, sul lungomare di Paola. Del resto tutto il mondo è paese, se pure il Primavera è un mondo a parte. (2be continued…)

Stefano Cuzzocrea