Diario di un Tano: lettere dal Sudamerica (#6)

di 2bePOP - 14 maggio 2013

diario di un tanoSono le 23.34, sono un po’ stanco e fa un caldo estivo. Tutte condizioni buone per la quarta puntata della ormai consolidata telenovela argentina. Quasi mi andrebbe di essere triste e malinconico ma in realtà in questo periodo va molto meglio, quasi bene. Ho conosciuto tanta gente, anche se sto sempre un po’ in guardia: in queste condizioni le conoscenze hanno sempre qualcosa di fragile. Sono io che esagero, la realtà è che Buenos Aires si sta popolando di aggrovigliate e piacevoli reti umane.

Le persone con cui sto legando di più sono tre ragazzi, studenti e venticinquenni come me. Sono simpatici, mi fanno sentire parte del loro gruppo, come se ci conoscessimo da tanto tempo. E’ una finzione, sì, ma è una di quelle finzioni sociali che non impediscono lo scambio intimo e sincero di idee, sentimenti, sensazioni. Loro sono curiosi di me e io di loro. Così va tutto bene.
Fa caldo, molto caldo. Ed è strano, sembra di vivere un passaggio brusco dall’autunno all’estate. E prima non era autunno e ora non è estate. Siamo a ottobre, qui è primavera avanzata. Ma niente è oggettivo, figuriamoci le stagioni. Qualche giorno fa camminavo in un marciapiede grigio e caldo, con una luce poco più che soffusa che mi avvolgeva senza essere invadente, come succede alcune sere d’estate. Avevo i sandali. Anzi, avevo le infradito, visto che i miei sandali, modello che ho ricomprato per la terza volta, li ho portati dal calzolaio. E camminando su quel marciapiede, con quelle infradito consumate, ho attraversato un tappeto di foglie secche e marroncino chiaro, di quelli che si trovano sulle strade quand’è autunno. E pareva che fosse autunno a terra, fuori, ed estate nel corpo. Come se i piedi attraversassero l’autunno restando impermeabili, nonostante le infradito. Sarà il cambiamento climatico? Io comunque non avevo fumato. Stavo andando a casa di Mauro, studente di psicologia che condivide questo status con moltissima altra gente. Buenos Aires è la città con più psicanalisti al mondo, mi pare di averlo già detto. Più della metà della gente conosciuta finora va o è andata chez le psi, come dicono i francesi. La gente è allo stesso tempo riflessiva, autoriflessiva e impulsiva.
Mangiano carne molto e troppo spesso, anche gli studenti. Perché è meno cara ma anche perché è un’abitudine interiorizzata e antica. E la quantità di carne divorata è direttamente proporzionale al numero di vegetariani. Io ogni tanto mi sento in colpa, a conferma del fatto che siamo tutti cattolici nostro malgrado.
Comunque mi hanno accolto bene. Ho conosciuto tanta gente, e so già che per la maggior parte non li rivedrò.
In tanti mi chiedono: como te trata Buenos Aires? Bien, bien, dico io. In genere dicono che parlo molto bene, ma le discussioni con la mia coinquilina cilena hanno a capacità di mettermi in crisi. I cileni parlano con ansia, mangiandosi le parole, come se andassero sempre di fretta.
Ritornando alla città e ai suoi quartieri, devo dire che anche qui Palermo è bella, certe cose si ripetono nello spazio e nel tempo.
Vorrei cambiare casa, forse vado a Villa Crespo, che si pronuncia “visgia crespo”.
Sono appena stato a una manifestazione di cacerolazos, che sono quelli che vanno in giro a sbattere coperchi e pentole per fare casino, riprendendo una tradizione cilena poco nobile, ché più che i carcerati il frastuono pentolaro lo usavano i filoamericani che volevano cacciare Allende. Reclamano dollari e libertà immobiliaria, e sono benestanti. Se mi sentisse la mamma della mia coinquilina mi salterebbe addosso, mettendo da parte la simpatia per il mio accento italiano che le ricorda sua nonna. Per le strade c’erano tante magliette lacoste sotto facce da classe medio-alta. Anche qui quelle fasce sociali non sono abituate a scendere in piazza: es una novedad, van a apropriarse del espacio público por la primera vez, dice un mio amico sociologo.
Una professoressa di Parigi ci diceva di fare attenzione nel considerare la propria esperienza scome socialmente rappresentativa. E’ come per l’erasmus: chi l’ha fatto pensa che riguardi almeno il trenta per cento degli studenti, invece poi si scopre che l’ha fatto solo l’uno virgola cinque per cento. I giri di conoscenze sono relativamente omogenei, per lo più. Io per esempio conosco quasi solo gente di sinistra. Qui però la sinistra è diversa e strana, i socialisti sono da sempre filo-europei e staccati dalla società e i comunisti erano elitari e ora non esistono. E infatti la sinistra non sono loro. Sono tutti peronisti, da destra a sinitra. Kristina, Kristina, Kristina, non si parla d’altro. Comunque ribadisco la mia impressione positiva per la politicizzazione della società: si parla sempre di politica, dalla vecchietta allo studente non militante. Centri sociali non ce n’è, sono salvi. I ragazzi sono vivi e vivaci: fanno tante riviste, suonano, mettono su radio. Anch’io mi sono inserito in questo fervore culturale, in questo spontaneismo inabiutale. Dalla settimana scorsa sono invitato fisso alla radio di Mariano: lo sguardo del Tano, la mirada extranjera sobre Argentina. Vado a fa’ er columnista. Due giorni fa ho parlato delle file ordinate che aspettano l’autobus. Ovviamente ho un accento molto forte, anche se tutti mi dicono che parlo molto bene.
E poi vorrei filmare quelli che mi parlano italiano, che farebbero ridere molto Alice. Ieri per esempio sono stato al bar con un sociologo che è anche presidente dell’associazione degli umbri, e per mezzora abbiamo parlato in Italiano. Lui la lingua l’aveva imparata durante un periodo di studi in Europa, dato che i suoi nonni parlavano in dialetto. E ora non mi ricordo cosa mi dicesse, ma il bello erano i modi. Per esempio per precisare o sottolineare un punto del discorso portava l’indice in alto agitandolo, come a mettermi in guardia dal possibile malinteso, e nel frattempo spalancava gli occhi e portava leggermente indietro la testa. E le labbra componevano una via di mezzo tra un riso e un sorriso sornione. Io lo guardavo divertito e interessato, e il linguaggio corporeo e verbale contrastava con l’argomento (si parlava di Simmel e altri sociologi). Pareva una commedia in cui tutti sono consapevoli di giocare un ruolo non dichiarato che però li diverte tantissimo. Era mezzo calvo e aveva gli occhiali. Ariel, si chiamava. E si chiama. E dietro di noi non c’era luce, causa black-out in mezza città.
Le strade sono grandi grandi e l’asfalto in questi giorni è caldo.
Mi sono abituato quasi del tutto a una vita senza curve. La città è tutta cuadras, isolati di cento metri quadri che danno forma e misura alla città. Nessuno ti dice che la Plaza de Mayo è a 2 km: è a veinte cuadras. E poi sono molto la precisione non sanno cosa sia. Gli autisti dell’autobus, quando chiedi se un posto è lontano, se ci vuole ancora molto, ti dicono: eeeh, falta, falta, che vuol dire ancora ci vuole. E poi dicono sempre más o menos, más o menos. Sempre, cazzo, sempre. E dilatano molto le vocali, come pare che facciamo anche noi italiani. Ora capisco perché gli ispanofoni che parlano italiano hanno quello strano accento, imitano gli argentini.
Il gruppo di Castelar e Ituzaingó è molto consolidato e mi vogliono bene. Li vedo un po’ come il rifugio familiare della periferia. L’altro giorno ho rivisto Antonio, il peluquero loco. Qui oltre a che, per chiamarsi tirano fuori appellativi come loco, pazzo. Immaginatevi un barista che vi urla: que quierés, loco?. Questa cosa mi diverte molto, soprattutto perché sono espressioni che interiorizzo velocemente. E poi le uso. Quando le ripeto mi sdoppio: da un alto l’attore – nel senso di persona che agisce – che parla, dall’altro lo spettatore che ascolta e ride.

I colori sono sempre sgargianti. E certo, non è che potevano cambiare da un giorno all’altro. Però col caldo un po’ cambiano, diventano più estivi.
Mi sono abituato al fatto che mi chiamino Tano. Sulla rubrica mi memorizzano così, Claudio Tano.

Stavo dicendo di Antonio e mi sono perso. L’ho rivisto qualche giorno fa, sembrava un poliziotto da telefilm anni ottanta. Il giardinetto interno di casa sua, da villa a schiera che però non è una vera villa, contribuiva molto ad accentuare l’atmosfera da Hunter.
Passo troppo tempo davanti al computer senza fare nulla di produttivo. Ora qualcuno di voi penserà che il capitalismo ci ha penetrato lo spirito e ci porta a capitalizzare ed economizzare tutto; che non devo aver paura di perdere tempo, che dobbiamo andare contro quest’idea di accumulazione e messa a frutto del tempo e via dicendo. Tanto ha già detto tutto Max Weber. E poi lo so, solo che il secondo suicidio su facebook l’ho già annunciato e poi rischio di perdere credibilità.

Ho i funghi sulla schiena e sto mettendo una pomata. Mi faccio la doccia tutti i giorni e per la prima volta dall’ultima mail mi restano solo un paio di mutande.

Che gli argentini siano tutti machisti è una cazzata, per fortuna mia e loro.
Si sta bene a Buenos Aires, è bella. Non fraintendiamoci, eh?, spesso sono triste e alla prossima mail vi farò piangere tutti con un pippone sull’estranietà e la solitudine dell’anima. Era solo per dare un attimo di tregua a chi avesse avuto la pazienza di arrivare fin qui, assecondando queste parole battute da un Claudio che non aveva voglia di alzarsi nonostante il culo sudato dal caldo di mezzanotte.
Un’ultima cosa, qui c’è il vuoto a rendere dappertutto: le birre costano cinque pesos in più, che poi ti rimborsano quando gliele riporti indietro.

Vi saluto e vi abbraccio, scusandomi per questa inaccettabile assenza di tristezza e malinconia e per questo ingiustificato cambiamento di stile.

Claudio