Diario di un Tano: lettere dal Sudamerica (#5)
di 2bePOP - 7 maggio 2013
Caro Dario, e non Diario,
Ho finalmente trovato una poltrona, un tavolino e un po’ di tempo per scriverti di me, dell’Argentina, degli stati d’animo che mi abitano e dei paesaggi che attraversano i miei occhi. E’ tardi, e domani vorrei andare in biblioteca. Ma la voglia di gettare ponti è più forte del sonno e dei rimorsi di coscienza, e vorrei tanto che questo versare parti di intimità su un supporto bianco e semicartaceo fosse come uno sberleffo alla distanza fisica, geografica, materiale che ci separa.
A che punto sono, a che punto siamo? Sono ormai da un mese in questa casa di Monte Castro, un quartiere che neppure l’autista del 106 – che assieme a tanti altri e variopinti autobus passa da qui – conosce. Non perché sia lontano, nonostante non sia tanto vicino, ma perché adombrato da Flores e Floresta, quartieri limitrofi e più grandi. Una battuta divertente ma consumata si ripete nello spazio e nel tempo, da Ituazaingó, dove vivono Mariano e famiglia, ai saloni porteñi: sai qual è la differenza tra Flores e Floresta? Sabés cual es la diferencia entre Flores y Floresta? Ésta! Jajajajaja, con le mani parate davanti al pacco e l’espressione soddisfatta per la battuta riuscita. E giù a ridere, tutti. Antonio, il barbiere-pistolero, me l’ha fatta almeno quindici volte. Assieme a quella su Marcelo, dello stesso repertorio: Ehi, Ceeeloo! Agarrate y conocelo! Celo, abbassati e conoscilo. Anche questa credo l’abbia fatta una ventina di volte. Sua moglie, Miriam, ribatte così: un scherzo brutisssimo, con gli occhi calati e una smorfia di disapprovazione, tra il biasimo e però anche la soddisfazione per un umorismo consumato con cui convive da trent’anni. A proposito, i capelli me li ha tagliati maluccio, come immaginavo: davanti me li ha lasciati troppo lunghi, e ora mi toccherà andare da un altro barbiere.
Ci sono un paio di curiosità linguistiche che attirano la mia attenzione da quando sono arrivato. Qua si ride così: jajajajaja. L’avevo già letto da qualche parte, su qualche blog o in giro su internet, e la cosa mi aveva sempre lasciato perplesso. Ché poi uno, no?, quando incontra un ispanofono, si aspetta perlomeno una risata mai sentita, un verso sconosciuto, un gesto che riveli finalmente il mistero di tutte quelle J. E invece niente, poi ci si imbatte in risate sorprendentemente normali. Ho scoperto il perché, nonostante non ci fosse granché da scoprire. E’ la jota di Juan: jajaja, come ahahah, come noi. La seconda cosa invece è che qui fanno la differenza tra questo, codesto e quello: este, ese, aquel. Ma sempre, mica solo allo scritto. Come i toscani, e come nella lingua in disuso. E la fanno tutti, indipendentemente dal livello culturale. E poi usano il congiuntivo correttamente, tutti. Non dicono speriamo che domani piove, dicono proprio piova.
Come ti dicevo, sono ormai da un mese nella nuova casa, che ormai tanto nuova non è. Anzi, a tratti diventa troppo vecchia, e mi verrebbe voglia di andare altrove. Si dice che conti l’esperienza empirica, e che concezioni generali e immagini inglobanti si proiettino nei dettagli concretissimi del vissuto quotidiano. E allora l’Argentina, in buona parte, è racchiusa tra queste quattro mura, in questa casa di una nonna morta un anno e mezzo fa e che mai avrebbe potuto pensare che io, oggi, avrei passato il tempo a togliere la sua roba dai cassetti per far spazio a miei vestiti. Come me, avrà lavato tutto a mano, visto che non c’è la lavatrice. Io infatti ho familiarizzato molto col lavandino del balcone del nono piano, e lavo tutto a mano. Ogni tanto però me ne dimentico, e mi ritrovo senza calze o senza mutande. Così faccio finta di non vedermi e mi rimetto le stesse per il giorno che viene. Oggi per esempio ho messo una calza di ieri, e prima di metterla l’ho pure odorata, nella speranza che non puzzasse poi così tanto. Ma queste parole sono la testimonianza del mio essere in vita.
Dopo questo dettaglio mia madre non potrà leggere queste righe. Perché le lettere di prima le ha lette anche lei, gliele ha mostrate mio fratello. E pensa un po’, la prima cosa che m’ha chiesto è stata: Claudio ma cos’è questo vino di cui parli? Ma allora bevi vino? E dove lo bevi, e con chi? E poi che cosa hai detto che si fumano, lì? Almeno si ride.
Le mie coinquiline spesso non sono in casa, chi per una cosa chi per un altra, così l’ambiente non è conviviale come lo immaginavo. Anch’io esco spesso, verso la biblioteca e oltre. La casa è piena di quel marrone vecchio, i mobili sono troppo pesanti e l’aria un po’ stantia.
Mi ritrovo a dover programmare le mie giornate, a costruirle volta per volta. Fatico a trovare una routine, credo a causa della mancanza di persone fisse che potrebbero farne parte o di un corso universitario da seguire. Come ti dicevo la gente è molto socievole e calorosa, e conoscere persone è molto più facile qui che a Parigi. Ma ci sarebbe da costruire una rete di amicizie, e non sempre ne ho voglia. E poi non sono inserito in una di quelle strutture in cui tutti vadano indipendentemente dalle altre persone, come potrebbe essere appunto un corso universitario. In quelle situazioni vengono meno obbligo e peso del rapporto, si è più leggeri, si può decidere di fare amicizia oppure no. E si impara a conoscere una persona dagli sguardi, dalla presenza familiare, dalla partecipazione comune a qualcosa di esterno a entrambi. Una persona con cui magari non si parla per due mesi, ma che poi, quando ci si presenta, si conosce già un po’. E si porta avanti la commedia delle presentazioni, si abbozzano i sorrisi d’occasione, si fa come se la si vedesse per la prima volta. E invece ci si conosce già. Ecco, qua fino a ora di questi ambienti non ne ho frequentati. Ho frequentato la biblioteca, è vero, ma i tavoli sono troppo bianchi, e a volte stare solo in mezzo a così tanta gente è insopportabile. Forse imparerò a stare con me stesso.
Tutti bevono il mate, in biblioteca, a lezione, sull’autobus e anche a me piace abbastanza. Ho dovuto cambiare tabacco, dal Golden Virginia sono passato al Domingo.
Fra una settimana dovrei andare in Cile, a Santiago e forse a Val Paraiso. Sono contento, passerò in mezzo alle Ande. I cileni però parlano di fretta, si mangiano le parole e combinano in maniera strana acuti e toni bassi. Mi veniva da dire ottusi, ma per quello siamo campioni anche noi.
Fra non molto inizierò la mia ricerca sull’emigrazione siciliana a Buenos Aires. Andrò a intervistare anziani signori arrivati nel ’50 dall’Italia per metter su famiglia e fortuna. Immagino che siano degli ibridi culturali, che mischino dialetto e spagnolo-argentino, che si sentano stranieri qui e anche nei paesini da cui provengono. Oppure che si sentano di qua e di là allo stesso tempo: la doppia presenza, invece della doppia assenza. Tra le varie associazioni siciliane di cui leggevo i nomi su un elenco online ho trovato quella di Galatti Mamertino, scritto con due T, e mi sa che andrò a vedere cosa fanno. Immagino che la gente molto anziana mi tirerà fuori un dialetto congelato, vecchio e ormai in disuso, e si realizzerà in parte il sogno topoliniano del viaggio nel tempo. Diranno viremma, come Leandro. Solo che a Tortorici e in zona non si dice da decenni e forse più. Oppure l’avranno dimenticato e parleranno solo lo spagnolo, e pazienza. Qualcuno pare abbia fatto così.
Forse andrò in carcere. Ho conosciuto una ragazza che lavora al consolato e che si occupa delle relazioni coi detenuti italiani nelle carceri argentine. Sono ventisei, quasi tutti dentro per reati di droga. Uno di questi, giovane, pare subisca regolarmente abusi sessuali da parte delle guardie. Neanche qui per questo sono messi tanto bene.
Tutto qui è molto politicizzato: la gente parla sempre di Cristina, la presidenta, per osannarla o per denigrarla. E ci si organizza, si mettono su sit-in, si lanciano manifestazioni, se ne parla al bar, a lezione, ovunque. L’impressione è che la politica sia più presente che da noi: nei discorsi quotidiani, spiccioli.
Vorrei dirti delle tante cose incrociate in questi giorni. E però adesso, della bellezza delle strade, di Palermo e dei suoi giardini, della pizza con la muzzarella, della tecnologia che costa tanto e di mille altre cose non riesco a scrivere, ho la testa e il corpo impegnati in altri pensieri. Una però voglio dirla: qua si dice sempre che, pronunciato “ce”. E vuol dire ragazzo, compare, amico. Compare più che altro, con la differenza che puoi dirlo anche a tua nonna. Come ben sai Che Guevara si chiamava solo Guevara, e lo chiamavano così perché era argentino e diceva sempre che, come tutti. Ecco, nella lettera dall’Argentina ho messo pure l’aneddoto su Che Guevara: ho toccato il fondo, l’anno prossimo mi presento al festival degli stereotipi.
Spesso sono triste, e pare sia normale. Lo dicono tutti, ci si ritrova in una città sconosciuta, bisogna ambientarsi, è normale. E poi fra un po’ penserai a questo periodo con un sorriso, e tutti contenti. Ma tra razionalità ed emozioni c’è un abisso, e intanto si lotta con le lacrime. E’ l’estraneità, oltre che la solitudine. Sarà anche lo stesso schema che si ripropone sempre uguale, una fase di passaggio, ma conta poco: i sentimenti sono quelli e si presentano in maniera irrefutabile. Ogni tanto comunque sono felice, e anche un po’ euforico. Si scoprono tante cose, i colori di Buenos Aires sono sgargianti ma anche eleganti, sempre armoniosi e mai kitch. Cerco di non piangermi addosso, nonostante la tentazione sia forte. E infatti spesso mi abbandono.
Sono andato a un corso, ho conosciuto professori, studenti e dottorandi. Tutti accoglienti, tutti interessati e incuriositi. Lo spagnolo è quasi facile, ma c’è il pericolo della falsa trasparenza, mi mettono in guardia poliglotti sperimentati. E lo so.
Forse mi manca la serenità, ma la primavera è già arrivata e potrebbe darmi una mano, anche se mentre scrivo c’è una tempesta in corso. Se piova solo fuori o anche nell’anima non so, o cerco di non pormi la domanda. Almeno lavasse il magone, ma più che bagnare non fa.
Ho visto un film molto brutto che apriva un festival sul cinema migrante. Tutti piangevano commossi dalla storia, ma a me sembrava tutto estremamente semplicistico e manicheista. Credo che il titolo fosse “La porta de no retorno”, una produzione spagnola.
Ora andrò a dormire su due materassi fini e un po’ scomodi, in una stanza a cui ancora non mi sono abituato. Che poi sarebbe anche bella, in teoria. Devo riempirla di entusiasmo, ma ancora ci sono gli scatoloni della nonna.
La prossima volta ti scriverò delle cose belle e curiose e cercherò di fare un amalgama migliore di pensieri intimi e mondo esterno, visto che c’è ed è notevole. Per questa volta mi scuserai.
Aspetto notizie da Bologna, che ogni tanto mi manca tanto e di cui ho parlato due volte negli ultimi tre giorni, per via dei suoi portici.
Nel frattempo salutami tutti.
Claudio