H come ho sbagliato ma non proprio tutto
di 2bePOP - 29 aprile 2013
Ho scritto una cosa delicata, qualche anno fa, e, per dimostrare che non sono stato solo il bifolco di cui alla lettera G, voglio mostrarvela.
Mi avevano commissionato uno spot radiofonico per un’iniziativa chiamata “Carovana A Sud” dell’Università di Catania. Ovviamente mi sono attenuto pedissequamente alle indicazioni, e il mio ego, al posto di un teaser, ha partorito questo monologo teatrale: la storia di un cantastorie smemorato che cerca di ritrovarsi tra le sue narrazioni.
STORIA DI UN AEDO SENZA STORIA.
Il mio nome non lo ricordo. In compenso canto. Non rammento nemmeno cosa mi piace o quello che detesto, ignoro ciò che mi dona pace. Non so se è peggio non sapere chi sono o non distinguere quello che mi attrae da ciò che mi disturba. Ho perso la memoria, ma ovviamente non so quando né come. Il perché invece lo posso immaginare, ogni volta che non riesco a parlare, muto e attonito di fronte al fracasso che emana dalla corte di Babele: troppi codici la attraversano, molteplici gli idiomi che si uniscono in un coro assordante e disperato, sete di giustizia sotto il manto celeste dell’affanno universale. Pochi sono gli uomini che governano nel tempo della migrazione perenne, molto poveri di sogni, assai ricchi di ferocia. La polifonia che emerge estrema è dissonante; stranamente mi rassicura, la melodia che narra è la mia personale cura. Carpisco dei frammenti di linguaggio che suonano familiari, li riassemblo e cerco di conferirgli un senso definito, ma il nome di mio padre mi è sconosciuto come il sorriso di chi mi ha partorito. La mia identità sfugge come il paesaggio attraverso i finestrini di un treno senza sosta; è questa la mia particolarità; intanto io prendo appunti di viaggio e cerco di decifrare con calma ogni messaggio, ogni metro cerco di compiere un gesto più saggio. Qualche briciola di memoria è scampata all’oblio- come una foglia di thè più furba del colino che la filtra- e mi dice che posso scappare da tutto, meno che da me stesso; che l’inquietudine non vola via con gli uccelli che ho salutato nel cammino, anche se la vita spesso si risolve in un battito d’ali, per lo più di farfalla, talvolta di cardellino.
Errabondo senza errore, questa è l’illusione più gioiosa. Quella più triste invece è di trovare un angolo del mondo in cui la vita di un uomo valga più dell’arma che lo uccide e le armi della dialettica siano più affilate della dialettica delle armi. L’impero non lo prevede, ma la speranza mia mai cede, ed il cucciolo di tigre che mi porto dentro un secondo ringhia e subito dopo ride. Lo illumina la stella, la stessa fonte di luce che mi permette di trarre il miele dal fiele, i fiori dal letame, la gioia dal dolore: la grande musa selvatica di un piccolo scrittore cantastorie. Gli amori passati non annegano nell’acqua che ho solcato sulle navi senza bandiera, per approdare in rade senza porto; i sogni e le idee non restano schiacciati sulle rotaie del mio vissuto, nella speranza che la fortuna aiuti le menti preparate, pronte a cercare una cosa per trovarne un’altra, convinte di farcela anche se i denti affondano nell’asfalto della sconfitta. Il futuro non ha troppo senso, senza relazione col passato- mi hanno detto lungo questo lungo viaggio-, quindi vado avanti per capire cosa ho dietro, e i segni che colgo per la grande strada della vita sono incisi sulla mia pelle come tatuaggio, mutevoli come i lineamenti del mio viso, pronti ad esplodere come un clown in un triste sorriso.
Tutto quello che incontro diventa racconto, e il mio nuovo mestiere è diventato intrattenere gli astanti con storie tanto impossibili quanto vere. Forse un giorno raccontando una storia capirò che è quella giusta, che è la mia storia. Quando sento l’assenza dei legami di sangue, mi si ghiaccia l’anima, ma il sole mi scalda dentro e il mio corpo muove deciso verso sud. Sabbie e mari, montagne e venti, rocce e valli hanno percorso le mie gambe, e le mie spalle si sono rafforzate sotto il peso crescente dei cambiamenti. La mia mente intanto va ovunque, alla ricerca perenne dei fili che muovono le nostre esistenze; la vita è attratta come calamita dallo spiazzamento generato dalla novità e l’adattamento agli scenari e ai linguaggi che mutano come i climi e i pensieri mi rendono bramoso di sapere quello che sarò domani, ben più importante di quello che ero ieri.
Oggi mi sono alzato, svegliato dagli scossoni che le pietre del sentiero regalavano alla nostra carovana, ed ho pensato che sia molto comodo non sapere troppo di se stessi, rende più curiosi rispetto a tutto il resto. Specchiarsi nell’identità è assai noioso, e non arreca mutamento; miglior destino tocca a chi si riflette nell’alterità, unica palestra per lo spirito che continua la propria ricerca: solo provando ad intepretare le azioni di quegli uomini e quelle donne lontani dal mio vissuto riesco a ritrovare la storia di me stesso, sul lungo sentiero, tortuoso e ricco, dell’analogia e della contrapposizione.
Il colore dei miei occhi cambia di continuo e la mia pelle acquisisce nuove sfumature, ogni volta che mi accolgono le gambe di un’amante dalla lingua sconosciuta, tanto eccitante quanto incomprensibile. Le parole si succedono come un mantra, i corpi si affrontano nell’agone del tantra; sto diventando un camaleonte della scoperta, riuscirò a segnare a dito l’orizzonte della comunicazione, apprendendo per osmosi quello che i libri non mi potevano insegnare. Chi non studia deve viaggiare per trovare la via della comprensione- questo lo ricordo- e allora io taglio il mare con i pensieri a bordo e i sogni sottocoperta. Spesso preferirei stare coi pesci che non con i miei compagni di viaggio, almeno sott’acqua la puzza di paura non si sente, e a galla sale il coraggio; ai pianti dei bambini ho sempre preferito i lamenti delle sirene, con o senza coda, di scoglio o di taverna, che ti invadono le vene; ma le branchie non sono accessorio da tutti, e quindi penso, navigo e solco nuovi flutti.
Mi muovo vago e ascolto, il canto del muezzin per la meditazione e quello del gallo per il risveglio, mentre i tonfi dei corpi che vengono sbattuti dalla tempesta riecheggiano nel mio cuore e si tramutano d’un tratto in colpi di djambè, il suono della jungla entra nella testa ed esce dal dijeridoo, i battiti del cuore echeggiano scanditi dal marranzanu, la malinconia parla tramite il violino tzigano. La lotta per la vita si sublima in ballo parossistico, il rigore della morte viene esorcizzato dal tremore delle anche, e le creature della danza, sempre spasmodiche, non sono mai stanche. La musica mi cattura, quello è certo; ma il suo rapimento è un ossimoro, e solo con lei trovo la libertà in questo eterno deserto; ballo sulle panche, ad ogni scalo, ad ogni fermata del mio pellegrinaggio, mi immergo nella folla senza diventarne ostaggio; finalmente mi accorgo di sapere suonare tanti strumenti e ballare tanti passi quanti sono gli occhi della gente che rimane abbagliata dalla foga dei bassi nelle mie esecuzioni potenti.
Gianluca Vittorio