G come Giovane Werther
di 2bePOP - 24 aprile 2013
Il giovane Werther. Io. Così mi chiamavano. Tatuato, terrone e con la faccia che ho. Immaginate cos’erano loro, gli autori televisivi a cui sono sopravvissuto un mese, prima di scoppiare. Lavoravamo al più grande flop che i reality abbiano conosciuto in Italia. Il Grande Fratello City a Torino. Dovevo fare il direttore di palco e l’autore junior. Quando eravamo in riunione dicevo la mia e mi zittivano: “Uè ma perché, a Catania si parla inglese?”. Loro che avevano fatto milioni di lire al giorno con Colpo Grosso, Karaoke, Il Gioco delle Coppie e altre squisitezze del genere e in prevalenza si esprimevano, come potete ben immaginare, in greco antico. Ero finito lì per sbaglio- tutti così dicono- o per il solito ennesimo tentativo di bilanciare il tao della vita. Fabrizio, il regista ed io, diciamo, genericamente alternativi, da un lato, e gli uomini Mediaset dall’altro. Leccaculo cronici fuor di metafora, fascisti con mogli ebree, monumenti all’ignoranza pagati per nutrire di immondizia la testa degli ascoltatori e così via. Dicevo una cosa io e non andava bene, quello accanto la ripeteva ed era un genio. “Stasera hai sbagliato tutto” fui apostrofato. Neanche un po’ di timore per un pugile catanese. Però. Che fa fare avere i soldi. “E cosa ho sbagliato di preciso?”, chiesi io tutto trepidante. “Non ricordo, ma non importa” fu la chiosa. Per fortuna il produttore scappò con i soldi degli stipendi, e il baraccone si arrestò. Io fui l’unico a portare a casa i soldi, perché ero il solo che chiedeva anticipi, il bolscevico, il morto di fame. La sera per reggere lo stress rubavo la Chrysler del boss- r.i.p comunque, Massimo Dorati- e andavo a bere champagne coi miei amici ai Murazzi, prendendo autovelox a duecento all’ora quando mi richiamavano imbestialiti dall’albergo. Per dormire fumavo crack. Un mese di vita così e decisi che il mondo della televisione non faceva per me. Io che venivo dalla Rete. Dalla prima web tv d’Italia: My-tv. Lì invece di numeri ne avevo fatti pochi.
Sono arrivato a Milano a 24 anni, dopo sei anni romani, cinque trionfali e uno fortemente decadente, e l’unico supporto virtuale con cui avevo dimestichezza era la Playstation, anzi un unico gioco della Play, Pes. Non sapevo neanche come si accendesse un computer. A parte un brindisino ossuto e dandy, ma fraterno, Bruno, è un argentino, Alejandro, bello, bravo e buono, che, a distanza di dieci anni, reputo ancora il mio miglior amico, il resto erano cani rabbiosi, ostili o sottomessi. Perchè in due settimane avevo imparato ad usare Final Cut e fatto cacciare due autori e i loro progetti, candido come un bambino di strada di Belo Horizonte.
Il chairman, come amava chiamarsi, mi aveva affidato due format, uno dei quali era The Bodyguard’s Interview. Il giorno successivo, sabato, dovevo riuscire ad intervistare Patti Smith vestito da security man. Era il diciassette novembre. Ovviamente cascava di venerdì. Per arrotondare facevo davvero il buttafuori, in una discoteca di Milano, l’ex-Time, un covo di sudamericani imbizzarriti, metal detector all’entrata ed un’accolita di addetti alla sicurezza tanto internazionale quanto trucida, nell’aspetto più che nella sostanza: a fine serata ero riuscito a shocckare anche loro.
Mi preparo ad andare, sono sotto Rattazzo, aspetto mio cugino per lasciargli in custodia la videocamera – non potevo rischiare per nessun motivo al mondo di farmela rubare- un cane mi piscia accanto, io mi volto e puf, come d’incanto, scomparsa: la Pd 100, ai tempi si usava quella ed era il top. Tremila e cinquecento euro svaniti, io che non mi ero fatto mai rubare nulla da sotto il naso o quasi, Clint Eastwood de noantri, arrivo a Milèn e mi faccio fare fesso come l’ultimo dei polli.
Vabbè andiamo a lavorare in discoteca, e iniziamo a metter soldi da parte per ripagare il danno. Eh già. Il danno. Potevo risanarlo solo per omeopatia il danno. Il Danno ero io. Ma ancora, nonostante i segni da decifrare non fossero in aramaico, non l’avevo capito granché.
Stringo il brodo. Quella notte è stata una delle due volte in cui ho avuto davvero paura di morire male. Anzi tre. Sotto il letto di un’ecuadoregna, ospite, con altre tre amiche, nel letto della padrona di casa, il cui fratello viene gentilmente a cercarmi in stanza su suggerimento di un’orda inferocita di colombiani che avevo pestato alacremente alla fine della serata in discoteca, per diverbi sulla filosofia occidentale; se non sbaglio loro erano con Heidegger ed io con Wittgestein. Non contenti dell’esito della disputa, ci salutiamo cordialmente, promettendo di ristabilire il conciliabolo quanto prima possibile. Io accompagno in taxi l’Origine dei Mali di quella serata, Karen, fanciulla poco lungimirante e dai sorrisi promettenti. Mentre mi spiega, nel suo androne, che non si può salire a casa sua semplicemente per il fatto che non è casa sua, entrano due ragazzi incappucciati, sgranano gli occhi e scappano via come se avessero incrociato Mefistofele. Io capisco al volo, che loro erano i filosofi della squadra avversaria e che lei li conosceva benissimo, e impongo, cocktail alla mano, alla signorina, di salire su, perché morire in un androne per mano dei suoi vicini di casa all’alba di venerdì 17 mi sembrava troppo epico anche per un supereroe come me. Lei resiste quanto può, ma metterla in ascensore non mi risulta più difficile che caricare le buste delle spesa in una tranquilla domenica milanese. La mia idea geniale palesa i suoi limiti quando la frotta di ispanici inferociti si scaglia contro la porta dell’appartamento nella cui stanza degli ospiti facevo finta di non esistere. Adesso bussano per buttar giù la porta; il fratellone viene in stanza, non mi trova e torna all’ingresso. Avanti e indietro, due volte in un quarto d’ora. Io sotto il letto con le maglie della rete impigliate nella mia di maglia, che ovviamente reca la scritta “I love Milano”. Prima che la terza visita si riveli quella fatale, dopo venti minuti di calma, prendo tutto il fiato che posso trattenere dentro e volo verso piazza Lodi. Sono salvo, ma a rischio di crisi mistica.
La maglietta è intatta. Ci tenevo, era il mio primo regalo milanese, fatta da mio cugino, col quale adesso non parlo più granché, sempre per questioni filosofiche.
Gianluca Vittorio