Milano Design Week & Elita Festival
di 2bePOP - 20 aprile 2013
È triste. Vedere Roma raggomitolarsi sulla propria decadenza piega le speranze. Nulla è eterno. Le strade deserte di sera e lo sgranchirsi sociale del venerdì e sabato sembrano esercizi dozzinali di sostentamento. Chi sperava nella primavera ha visto solo qualche bermuda in odor’ di naftalina. Il resto sono elezioni su elezioni, cerchi concentrici che qualcuno, a ragione, avrebbe usato per prendere la mira e che oggi, invece, si trasformano in mire. Verranno tempi migliori forse. Ma chi visse sperando ha poi finito per incarnare un pezzo di Masini.
La disperazione porta a migrare. Chi comprende che sia solo un sonnellino, un fuoco che riposa sotto la cenere se la cava con divagazioni su rotaie. Direzione Milano. E se i religiosi gridavano che lì hanno solo la nebbia è tempo di aprire gli occhi, o almeno di vederci chiaro. Il Design Week fa la differenza. Sarebbe stata solo una fiera se la capacità di relazionarsi, lo sforzo sinergico, un principio comunitario coniugato, però, all’imprenditoria e al concetto di vetrina e status symbol non avesse creato un piano integrato capace di svegliare migliaia di persone provenienti da vari pianeti, ed anche il sole .
La pioggerellina del giovedì è mancuniana e fa molto new wave. Fuori dal Salone c’è una fila, tra le vie di Brera e via Tortona, che somiglia a quella per la toilette in ogni club. Bancarelle con panini che fanno molto festa patronale in Calabria aggiungono colore e soprattutto odore di arrosto, di carne alla brace e cervelli in fumo o almeno di fumo negli occhi.
Quella che su 2bePOP è una devianza consolidata e contratta, quello che definiamo “il morbo della periferia”, trova giovamento in zona Lambrate: industrialità dismessa, rovine di un mondo in corsa che si trasformano in spazi destinati all’arte, in riciclo dell’urbano per il migliore urbano. Ovviamente lontano dal centro, dai vertici, dalle stanze dei bottoni e dai bottoni per azionare il dosa sapone e l’asciugamani ad aria calda. Una sorta di Londra che per una volta non fa sembrare i sobborghi meneghini parodie del fulcro di ogni circonvalla. Tanto che non c’è una lingua madre e i flussi sembrano abitanti di Babele protesi ad un nuovo mondo possibile o almeno percorribile.
Ciò che distanzia il Design Week dal concetto seriale di fiera, si è già detto, è il modus che gli consente di vestire ma anche di vivere l’intero perimetro metropolitano, esperimento non partito in nessun altro porto, neppure intorno al Pitti fiorentino, sebbene le dinamiche potrebbero essere simili. Tanta roba. Forse addirittura troppa, tanto che gli indigeni se ne lamentano: “figa, dovrebbe durare almeno 15 giorni o un mese, è impossibile vedere e seguire tutto”, è il commento che ne dà chi quei luoghi li vive ogni giorno, con devozione quotidiana a Sant’Ambrogio, a San Silvio o alla prossima moda.
Tutti si dedicano al design, finanche i parrucchieri. Ce ne sono un’infinità a Milano, ma si dubita che a questa inflazione di taglio (e per estensione anche di cucito) non sia seguita una rovina dei vecchi barbieri, tant’è che le strade e le feste pullulano di giovani Matusalemme. Che barba che noia, avrebbe detto Sandra al pungente Raimondo, ma non in questa settimana, dunque, tanti sono gli incontri, le esposizioni e i party.
È tutto un clubbing, un aperitivo costante, con drink gratis e birre a due lire, anzi a due euro per fare giustizia nei confronti della contemporaneità. E come se non bastasse, da anni, esiste anche Elita. Il festival nella fiera è quanto di più attinente possa esistere ad un piano di fattibilità ben congeniato in un corso di organizzazione eventi. Una trovata che nessuno avrebbe mai applicato in altri posti italiani dove la domanda sonnecchia e l’offerta cerca risposte nel fondo di un bicchiere.
Elita, tra l’altro, ha un cartellone decisamente chic. Talabot ne è la prova più in linea con i tempi, viste le classifiche di fine anno. Ma oltre a lui Red Bull mette le ali anche agli Esperanza, che riempiono il Tunnel del divertimento fino alle 4 ed oltre, giocando in casa, e in più partiranno per giocare su altre piazze per tutto il week end, tra Roma e Pescara, realizzando risultati peggiori. Del resto, forse, il campanilismo sta creando concerti che somigliano a feste di compleanno ed anche la band, interrogata dopo il tour, non ha avuto solo smentite per questa domanda, o meglio non ha dato risposte univoche, ma questa è un’altra storia che racconteremo più in là.
Il venerdì del Design Week, invece, suona hip hop 100% e lo fa anche bene. È già il giorno dopo e la pioggerellina inglese ha lasciato il posto ad un sole che fa sorridere di ogni diceria della curva religiosa e cancella le nebbie cerebrali. A infierire potenziando tanto splendore arriva la scuderia Macro Betas. Ghemon, Kiave e Mecna danno vita uno show nel qual ognuno mette la propria personalità, uno per volta, non ripudiando una coralità che sa di posse evoluta e coniugata al millennio in corso d’opera. E quando il calabro dei tre introduce con “ci siti”, sul palco milanese, il brano Redenzione, è una periferia geografica a redimersi; particolare trascurabile se non si fosse affetti dal morbo di cui sopra.
La crew è solo un’introduzione. La star è Mos Def. Il live è un succedersi di rare groove mandati dal dj e pezzi magistralmente intonati da lui, sotto lo pseudonimo di Yasiin Bey. La sala è gremita e si squaglia dal caldo, eppure il pubblico barbuto non leva il cappello di lana, testimoniando un modo di essere o forse o più probabilmente di sembrare. L’M.C. ride e balla, tra un brano e l’altro, asciugandosi il sudore con un cimelio intimo che una fan gli ha lanciato sul palco in sincronia col primo beat. Tutto molto 90 ma senza nostalgia. Sebbene il finale ci riporti su note mai dimenticate e in uno scenario che profuma di bei ricordi impressi su peli ormai ingrigiti. Nessuno è immune.
Neppure Milano lo è: il resto della rassegna è un elenco in cui capeggiano Villalobos e James Holden, il clubbing, il sabato del villaggio, le file per il bagno e macchie di giaguaro che non vanno via. Se davvero durasse un mese, forse, chissà, qualcosa cambierebbe. Che so, il Presidente della Repubblica almeno…
Stefano Cuzzocrea