C4 ovvero Calcio, Cazzotti, Catania e Cultura
di 2bePOP - 5 aprile 2013
Adesso piove fuori, mentre dentro di me già nascono arcobaleni insonni di parole, ricordi e desideri. Ieri sono uscito di casa e ho dato il pane ai piccioni. Sempre meglio che le perle ai porci. Non mi sono mai stati troppo simpatici i volatili urbani, non i suini, ma, essendo in fase francescana e ferrarese, mi sono sentito buono come un boy scout, nella versione pidgeon.
Ho iniziato a seguire maniacalmente le prescrizioni alimentari, sempre per il motivo che ho iniziato a volermi bene e cose, quindi il pane lievitato risulta assai cattiiivo. Dopo, giusto per ricordare a me stesso il motivo della mia venuta a Ferrara, che verrà esplicitato maggiormente alla lettera F, sono andato all’Ibs di piazza Trento e Trieste a seguire la presentazione dell’ultimo libro del boss di Antigone, l’ottimo e simpatico Stefano Anastasia, Metarmorfosi Penitenziarie. Il giurista che gli faceva da contraltare era impeccabile nell’eloquio, seppur viziato da quelle manie, storture e tic che solo i giuristi e i forensi possono permettersi con tanta nonchalance. Quando l’ho avvicinato chiedendogli dove fosse il banchetto per sottoscrivere le petizioni, ho avuto l’impressione che uno dei due iniziasse ad evaporare, ma non ho voluto scoprire chi, allontanandomi repentinamente.
Ho sbagliato tutto nella vita. Volevo fare il calciatore. In realtà ci spero ancora. Ogni volta che guardo una partita e mi vedo col numero 9 sulla maglia del Catania, ricco ma colto, duro ma leale, letale sotto porta e delizioso in zona assist, prodigo nel far beneficenza quanto nell’innalzare il livello culturale degli inseguitori di sfera, con levità e sarcasmo. Ogni volta che do l’anima sul campo per fare gol. Ogni volta che mi innamoro del pallone pensando a mio padre che mi diceva che quello era il mio limite, e io sui limiti ci ho costruito il modo di giocare e la mia vita tutta.
Invece ho fatto il pugile per 12 anni di attività agonistica frammentata, il rugbysta prima, giusto per spaccarmi le giunture in partenza, e a calcio continuo a giocare per diletto, fra amici, nonostante due operazioni al ginocchio sinistro, subite per incidenti sul campo.
Sono entrato nella palestra di piazza Duomo a Catania quando il pugilato non era trendy, quando non esistevano le palestre popolari, quando era da fascisti fare uno sport così violento, quando non esisteva la fit boxe, quando ancora doveva formarsi il Glooka di turno che te la spiegava con amore, creatività, pazienza e fratellanza, quando Saviano non ti attaccava le pippe pure su quello, celebrando come esempio di vita e nobile arte uno dei pugili tecnicamente e caratterialmente più scadenti della storia della nostra boxe dilettantistica, quel Clemente Russo che, ironia della sorte, è stato uno dei prospetti più vincenti del pugilato tricolore. Quando si poteva viver tranquilli senza nessuno sprecasse il proprio fiato sulla boxe che fa bene, che codifica la violenza, che scarica lo stress. Tutta retorica, tutte cazzate. La boxe, se la fai per bene, ti fa diventare un’arma sempre carica. Ti insegna a menare, affilando il tuo istinto come una lama, menare tutti, dai tuoi fratelli ai tuoi nemici, per la splendida democrazia che regola i ring di tutto il globo.
Ho iniziato a tirar di boxe per vari ordini di motivo.
Primo: mi piaceva da quando mio nonno Tano mi faceva vedere gli incontri storici che registrava mio zio Gulio, da Leonard-Hagler al debutto vincente di Tyson contro Berbick. Boxe anni ’80, sponsor Budweiser sul tappeto del ring e cose così.
Secondo: Catania è una città dura, nera come la lava che la ospita, una città in cui “Chiddu è ‘n pazzu”, minchia, “Chiddu è ‘n criminale”, sono apprezzamenti estremamente positivi, una città in cui, all’inizio degli anni ’90 ancora, portare una cresta, i capelli lunghi, un orecchino appariscente o una maglietta lavata con la candeggina e occupare i centri sociali non erano azioni e segni sussunti dall’industria culturale di cui ci parlarono con tanta dovizia di particolari Horkheimer, Adorno e Marcuse, e quindi erano realmente gesti contro-culturali, dirompenti, sovversivi, libertari. E questa libertà dovevamo prendercela, a suon di cazzotti, contro lumpen-mammoriani e fascisti. Loro venivano all’Auro, che occupai a 13 anni e 5 mesi, e non trovando né poliziotti né mafiosi a contrastarli, festeggiavano quest’evento cercando di darci fuoco vivi o di assalirci a bottigliate nella migliore delle ipotesi. E noi ci difendevamo, attaccati con mezzi medievali, con quello che avevamo: le mani.
Per diventare un buon pugile devi vendere l’anima al diavolo, devi menare tuo fratello con la stessa determinazione con cui si picchia un nemico e diciamo, che col tempo, le botte, le sostanze e Pavlov hanno fatto il resto.
Ma nel frattempo, siccome stupire mi piaceva quanto fumare e scopare- quant’ero poco originale e tanto edonista, tutta colpa del materialismo senza dialettica- ho sempre continuato a leggere, da Burroughs a Toni Negri, passando per Bukowsky e Tolkien, e a curare la mia parte culturale, più del mio corpo che ritenevo indistruttibile e del quale quindi abusavo. Certo che anche la mente l’ho maltrattata con sostanze e ghirigori vari, ma questo è un altro capitolo della storia.
Se non altro le cose le facevamo perché ci credevamo e non per postare la foto su Fb. Abbiamo contribuito a liberare la società, ma il prezzo da pagare era così alto da non poterlo scorgere.
Altro motivo scatenante del mio diventar boxeur, oltre all’essere gracile di partenza, fu la mia erre moscia, che a Catania è vista -ah la sinestesia!- peggio di un difetto nella deambulazione.
Insomma, dopo la prima parte della mia vita, in cui le prendevo, decisi che ne sarebbe nata un’altra di fase. In cui le avrei solo date. Al mondo intero.
Quindi sono diventato violento per ragioni individuali e collettive.
Il problema è che mi sono sempre preso tremendamente sul serio per le cose sbagliate. E che se Ulisse, pardon, Tino, mio padre, mi metteva in guardia, metaforicamente, su qualcosa, io decidevo di dimostrargli che lui poteva avere la cultura, ma io avrei vinto comunque, in quanto suo miglioramento darwiniano. E, ovviamente, avevo quasi sempre torto. “Tu dai sempre il vantaggio a tutti, ma arriverà il giorno in cui non potrai recuperare” mi suggeriva, giusto e vaticinatorio
Stavolta, che sembra davvero impossibile, recupero, Pa’.
Fosse l’ultima cosa che riesco a fare.
Gianluca Vittorio