Lettere nere su sfondo bianco
di 2bePOP - 4 aprile 2013
Dio è morto, Marx pure e anche il quadro non se la passa tanto bene. Ora, se volessimo mandare a tappeto l’arte plastica, per sancirne la morte aldilà del gesto o dell’estasi autoreferenziale, potremmo porle questa domanda: plastica arte, secondo te, dovresti porre domande o dare risposte?
Ho l’impressione che Nostra Signora non solo non porrebbe domande né esaudirebbe quesiti, ma non saprebbe neppure rispondere alla mia di domanda.
E’ insolito, in quest’ambito, scrivere di un evento per invogliare a constatare la quasi insensatezza dell’evento stesso. Eppure, in questa plausibile esagerata e presuntuosa dissacrazione di uno dei maggiori pilastri dell’arte, il beneamato quadro, restano ineludibili delle linee guida teoriche e cronologiche che danno poco scampo al suddetto.
In più, la mostra in questione è ospitata in uno dei templi dell’arte contemporanea italiana, il Museo Pecci di Prato: la proposta consiste in un temporaneo reparto di rianimazione per una mostra intitolata La figurazione inevitabile, partita il 24 marzo con scadenza l’8 luglio – intero 5 euro, ridotto 4.
Gli artisti in opera (licenza poietica) sono Richard Aldrich, Mamma Andersson, Helene Appel, Michael Bauer, Luca Bertolo, Joe Bradley, Peter Linde Busk, Pierpaolo Campanini, William Daniels, Avner Ben – Gal, Thomas Helbig, Merlin James, Rezi van Lankveld, Katy Moran, Marco Neri, Alessandro Pessoli, Tal R, Matthias Weischer. E’ la generazione di pittori nata dopo i Sessanta, molti dei quali alla loro prima collettiva in Italia. Sono gli ultimi romantici del pennello e della tavolozza. Reduci dall’eccidio dei soggetti indotto da quegli spietati spiriti liberi che erano, tra gli altri, Mondrian, Kandinskij, Klee.
Ironia a parte, la sfida lanciata dai curatori – Marco Bazzini e Davide Ferri -
non è certo delle più prudenti. L’arcano che si prefiggono di sciogliere ha una portata decisamente dilatata. Da ammirare se non altro il coraggio, quello di immergere nuovamente tele, linee, colori e figurazione nel perimetro di uno spazio d’arte contemporanea. Se fosse una battaglia, i soldati in trincea sarebbero già schierati e con la pupilla a mirino.
Il punto della questione non è l’arte plastica in sé, che certamente si mantiene giovane nonostante l’età. Quanto piuttosto il dubbio, sacrosanto, che mostre del genere, in luoghi di genere, possano in qualche modo sfuggire al loro significato generativo, se si tralascia l’importanza della loro immersione storica.
Il perché del titolo è nella forma, nella faktura del quadro. Quel Quadrato nero su fondo bianco, del 1913, aveva messo in imbarazzo definitivamente il soggetto, la mimesis, il passato.
Dopo, il nulla. Il nulla da cui parte la creazione; non più, mai più, la riproduzione.
Così il ready-made iniziava a beffeggiare il critico, prima ancora che la società. I graffiti celebravano se stessi su altre pareti, in virtù di quelle pareti, al di fuori delle gallerie. Avanzavano proposte di “musei immaginari”, dilagava l’art brut. Il significante che agguantava il significato, lo masticava e lo risputava, come imponeva Malevic.
In una frase passata alla storia, Maurice Denis, già nel 1980, attestava che prima d’essere un cavallo, una donna nuda o altro, un quadro è prima di tutto una superficie piana coperta di colori combinati secondo un certo ordine.
A oggi dunque, in un museo d’arte contemporanea, una mostra di giovani pittori, sarebbe una domanda, una risposta o una minestra scaldata? A voi il verdetto.
Laura Migliano