A come aforismi
di 2bePOP - 3 aprile 2013
Oggi ho iniziato a volermi bene. Pensa un po’. A Ferrara, dove non avrei mai pensato di finire, lontano dalla città nera in cui ho visto la luce, così distante dalle mie radici da poter ricomiciare a vivere. Ho 34 anni e tre quarti e mi sto allontanando dalla strada degli eccessi. Precoce in tutto, tranne che nel capire come si campa, solo ora inizio a scorgere i segnali che mi indicano il palazzo della saggezza. Basta, sono stremato dall’essere la vittima mediocre di una massima di William Blake, letta a 13 anni, in un libro su Jim Morrison.
Di solito si parte dall’inizio o dalla fine, per raccontare.
Questa non è la fine, almeno spero. Per spiegare gli inizi, però devo partire da qui.
Questa è la storia di un’identità distrutta, frammentata, schizofrenica, di un’esistenza vissuta ed esibita oscenamente per essere altrettanto ossimoricamente celata nella sua essenza. La storia di un ragazzo esile, dolce e con la erre moscia che da lettore precoce di Marx e Prevert si è trasformato in un nemico della società. Da Tazio a Bruto il passo non è stato brevissimo e neanche indolore, ma i pugili si sa, sono un po’ masochisti.
Finora ho sempre parlato di me per nascondermi, nei peggiori bar, nelle peggiori ore del mondo, nelle peggiori condizioni in cui un essere umano possa sperare di ridursi. Esibire la propria maschera per non mostrare la propria anima, Nietsche docet. Non m’interessava la platea, la mia era una sorta di autoanalisi narcisistica, autodistruttiva e catartica assieme, il cui scolo diventava liquame sempre più denso e mai miele. Sopravvalutavo me e il resto del mondo. Nei giorni giusti. In quelli sbagliati sottavalutavo me e il resto del mondo. Ora ho smesso anche con le valutazioni. Mi limito ad interpretare, come Clifford Geertz con i balinesi.
Finalmente mi sono stancato di cercare un bilanciamento impossibile fra gli opposti, preferisco essere un suddito di me stesso, piuttosto che il re dell’ossimoro. E anziché parlare di me, scrivo di tutto.
Sulla mia carta d’identità, alla voce professione si legge “Scrittore”. E sempre per la mania dello stupore generale, ero uno scrittore che non scriveva.
Evitavo la prima persona come la peste perchè, in perenne oscillazione tra megalomania e depressione, lo ritenevo noioso. Adesso sono andato oltre. Oltre l’autodistruzione e l’esaltazione, la droga e la noia, il riso e il pianto, il godimento e la pena, oltre il principio di azione e ricompensa.
Finalmente posso fare lo scrittore.
1. AFORISMI
Gli aforismi fanno male alla salute, soprattutto se li prendi troppo sul serio e li estrapoli dal con-testo di origine. Se poi te li tatui sull’avambraccio sinistro, in caratteri gotici, insieme a due guantoni, un microfono e la tua iniziale a mo’ di araldo, e lo fai a 29 anni, beh, ti converrebbe farti vedere da uno bravo, ma bravo davvero. “Quello che non mi uccide mi rafforza”. Sempre il caro vecchio Federico a tendere trappole letali a chi legge di sfuggita, a chi cerca di trarre un motto da un personaggio, a chi esibisce prima di comprendere, a chi pecca di ubris della conoscenza. E’ come estrapolare un fotogramma da un film, un amore eterno da una fellatio, una sentenza da una vita. E’ molto limitato e limitante. E denota un’insicurezza estrema. Come chi si scrive la lista della spesa o delle cose da fare in una giornata su un foglietto per ricordarsele. Solo che la carta si ricicla, la pelle no. E soprattutto mi sembra davvero ridicolo volersi ricordare di qualcosa di importante. Se è importante lo ricordi, se non lo ricordi non aveva importanza. Questa massima è stata la prima cosa che mi ha fatto saltare i nervi, tra le tante ripetizioni di mia madre. Ovviamente aveva ragione. Come era nel giusto e continua ad esserlo quando anziché diseredarmi per tutte le minchiate che sono riuscito a combinare, mi dispensa il suo amore senza misura, per farmi vivere la vita. Sperare nella metempsicosi diventa un dovere morale quando ne combini troppe e pensi a farla finita con la facilità con cui si programma il menù della cena, ma crederci davvero è come essere cattolici ed io, ai dogmi, sono sempre stato parecchio allergico. Come ai doveri, alle istituzioni, alle convenzioni e a tutte le persone che si prendono sul serio.
L’uomo è una bestia, per quanta cultura possa ingurgitare. Spiega più la teoria del cane di Pavlov, riguardo all’agire umano, che un ottimo manuale di sociologia. Sono contento che lo sostenga Sapolsky, ma questo l’avevo già capito.
Gianluca Vittorio