Riflessioni alla moda sul costume ai tempi della crisi
di 2bePOP - 15 marzo 2013
Ammettiamolo. L’arte della dietrologia fa parte del nostro Dna, quasi quanto l’amata/odiata associazione con pastasciutta e pizza ne è l’eterna Spada di Damocle. Ma lungi dal rivelarsi solo come l’ennesimo sport da pecorone nazionale, retaggio più che comprensibile di una gloriosa ed ingombrante eredità cui dobbiamo da sempre far fronte, guardare al passato si rende un espediente indispensabile di questi tempi, in cui tutto sembra sia già stato ampiamente saggiato e sperimentato, e la carenza di fantasia divampa quasi quanto le improduttive lamentele di chi ne avverte con prepotenza il vuoto, senza mai muoversi in concreto per colmarlo.
Digressioni permettendo, tra i tanti flashback espositivi più o meno discutibili che si avvicendano direttamente proporzionali alle crisi millantate, ci sentiamo di suggerirvi questa piacevole eccezione alla regola, qualora vi fosse sfuggita. Perchè “Fashion. Un secolo di straordinarie fotografie di moda dagli archivi Condé Nast” non rappresenta il solito sussiegoso omaggio ai fasti che furono, con sguardo nostalgico-retrospettivo fine a sè stesso. E non merita di essere visitata solo in preda al classico attacco di allucinazioni da must-do compulsivo, che perentoriamente colpisce trend setters in accanita ricerca di scoop, al pari di party lovers assassinati dai festeggiamenti dei vari after-Fashion Week di rito (ogni riferimento a fatti e persone è puramente casuale). Che apparteniate all’una o all’altra categoria dunque, o a nessuna delle due sarebbe ancora meglio, di spunti per andare ce ne sono in abbondanza per tutti, e vediamo perché.
Attraverso molteplici scatti di leggende dell’obiettivo che nel corso di un secolo ne hanno decretato la vertiginosa ascesa, selezionati dagli storici archivi della casa editrice Condé Nast, di New York, Parigi, Londra e Milano, la mostra ripercorre la storia della fotografia di moda in rapporto al suo diretto strumento comunicativo, invitandoci sottilmente a fare una riflessione che va ben oltre l’intento di tributo dichiarato. Passando da Cecil Beaton a Peter Lindbergh, fino a Guy Bourdin (la cui esposizione presso il MNAF di Firenze si è da poco conclusa con successo), e assaporando con gli occhi immagini che profumano d’inchiostro, stralci di pagine che emanano il fresco fascino dei colori stampati, l’osservatore prende via via coscienza di come questa disciplina, ad oggi tanto inflazionata e massificata, si sia evoluta da semplice passatempo per bellezze dissolute e tardoni bavosi, a veicolo artistico autonomo e portatore di significato, proprio grazie al contributo mediatico del magazine di moda; e di quanto i due elementi siano stati, e siano tuttora, nonostante l’apparente arrampicata sociale del digitale, strettamente correlati.
Una banalità? Al momento, potrebbe sembrarlo. Quando la supremazia del web ci induce a tascabilizzare passivamente il cervello in app dal gusto popp, riscoprire con il “solo” potere dei cinque sensi l’importanza che ancora riveste il supporto cartaceo, l’antiquato contenitore museale portatile sì, ma scomodo e pe(n)sante, nel mantenere vivo l’aspetto più intimamente romantico ed espressivo dell’arte, consola e non poco. E doversi accorgere con tanto puerile stupore del modo in cui questo dilagante consumismo globalizzato di forme ed idee abbia condizionato i nostri metri di valutazione oggettiva, è davvero un paradosso. Ben vengano i controsensi però, se a trarne auspicio è la nostra (ri)crescita critica ed intellettuale. Andateci, e lasciate l’i-Phone a casa per un giorno.
Sarah Venturini