Beach House @ Piper (Roma)
di 2bePOP - 12 marzo 2013
Piove. È come se l’acqua scendesse giù da mesi. Settimane che svuotano Roma e le sue notti, riempendole solo di venditori ambulanti di rose, accendini e cartine che restano testimoni di questa desolazione nella quale sta sprofondando l’eternità della città. Oggi no però. Sarà che la domenica anche la crisi sembra poter riposare. O forse il motivo è un altro: suonano i Beach House.
Anche la pioggia ci sta bene. Sembrano lacrime infette da quella stessa nostalgia che ha sempre innaffiato Manchester e le sue nuove onde mai invecchiate. Sarà che di quella stessa new wave la band si innaffiata il capo fin dal proprio battesimo, sebbene in una fede personale, o forse perché il cielo grigio sa tanto anche di quel David Lynch che ha dato al gruppo luci ed ombre, ispirazioni e legacci.
Romanzi horror per ragazzi problematici, diceva un amico già molto prima che i il duo di Baltimora scrivesse Teen Dream, il proprio terzo capitolo. Oggi sono a 4 e il numero non porta sfiga: la fila per l’ingresso gira intorno al palazzo del Piper, un po’ come se la vita fosse tornata dolce, almeno per questa sera, almeno per qualche ora. Ausgang continua la sua piccola rivoluzione culturale, nonostante tutto.
Giorni fa, a metà settimana, il club lo aveva fittato Renato Zero, per presentare il suo nuovo album in anteprima, tentando di far rivivere i fasti degli anni 70. Eppure la nostalgia sembra non avere scampo, adesso, poche ore dopo: si tratta di ragazzi, sia sopra che sotto il palco, o almeno di contemporaneità. In verità non si vedeva un evento tanto di successo da tempo, questa è la verità. Il perché, però, resta in parte un mistero, oppure no.
Che sia per il dream pop? Oggi che sembra non esista un futuro e che la scansione non si discosti mai dalla linea kronos, chiusa in un eterno presente e senza consentire fughe artistiche lungo la linea dell’aion, i sogni sono rari e vanno inseguiti, almeno senza sforzi, dato che sono altri a realizzarli. Victoria Legrand e Alex Scally gli hanno saputo dare la forma canzone e la fanno risuonare su quel palco che è stato dei Pink Floyd e dei Nirvana, prima e dopo che degli zero.
Lei ha fascino. Ed è anche elegante, sebbene abbia una giacca luccicante che sembra presa nell’armadio di Robert Eno o in quello del miglior Frassica di Indietro tutta. Si muove facendo tesoro dei trascorsi teatrali, liberando l’emozione per il sold out giusto in qualche bacio lanciato sul pubblico, a metà show, una volta rodata la macchina.
Si parte con Wild, poiOther People ed ecco dopo i sogni di Teen Dream farsi un’altra volta capolavoro in Norway. Dietro il trio, che live si porta un Daniel Franz, in canottiera da energumeno d’ordinanza alla batteria, un gioco di luci si riflette su una scenografia essenziale quanto efficace. Un po’ come il pop che esce fuori dalle casse.
Ecco perché la folla: le canzoni sono semplici e introverse esposte in una struttura accomodante che non spiazza. Come se già questo non fosse abbastanza, le melodie tipicamente europee del cantato femminile sono confortanti come il grembo di una bella mamma; calore di una placenta culturale. Del resto i motivi che nell’infanzia le hanno allattate sono gli stessi che amava tradurre la sofferenza del nostro Tenco. E tutto torna. Nessuno si è mosso troppo da casa.
I Beach House sì. E quando parte Master of None la distanza da quel 2006 si percepisce nel professionismo che non lascia mollichine ad indicare la via del ritorno. Favolosi. Normali come il tempo che ci unisce. Fiabeschi come la maleducazione al cristallino che scioglie il pop al miele in una soluzione acre. Take Care chiude il cerchio, e abbraccia tutto. Mentre i feedback sporcano ogni limpidezza e insudiciano le banalità. Ed ecco l’ultimo applauso prima di tornare alla normalità. Di nuovo in fila. Ancora esposti al maltempo del quotidiano. I ragazzini comprano le t-shirt e gli hipster i vinili. Il resto sono file da accumulare nella rom, ma almeno non è una memoria voltatile, non dopo stasera si spera. Si spera sempre…
Stefano Cuzzocrea