La libertà di ritrovarsi Uzeda: ecco l’intervista
di 2bePOP - 12 marzo 2013
Inutile stare qui ad arrovellarsi e trovare parole, il cui peso forse poi non sarà nient’altro che direttamente proporzionale alla quantità di cazzate che leggiamo in giro ogni giorno su blog e blogghetti all’avanscoperta del nuovo che piace, in questa maledetta malattia che chiamiamo musica italiana. Se c’è una musica che ci chiede di limitare il confine, alzarsi fieri per un’altra interrogazione di geografia nella penisola, allora è il corrispettivo totalmente contrapposto a quello che pensi te, stretto davanti al tuo pc ad ascoltare in streaming l’ennesimo disco del tuo Baglioni 3.0. E’ la musica in Italia (e non all’italiana) la vera chiave di volta della nostra collettiva e personalissima faccenda.
E così, in un batter di ciglia, ti rendi conto che la cosa più grande che potesse accadere alla musica in Italia negli ultimi 25 anni si chiama Uzeda. E’ abbastanza evidente che una band del genere qui non ci sia mai stata. Perchè ripetere un’operazione del genere è difficile, perché poi non è stata un’operazione, ma qualcosa di più. “Si, ma noi non ci sentiamo di avere fatto più degli altri. Abbiamo fatto le cose che potevamo, desideravamo fare, seguendo quelle che erano le nostre esigenze”. Giovanna parla con dentro gli occhi la saggezza e il fuoco vivo di chi, a 50 anni suonati, riesce a mantenere intatta la lucidità e l’entusiasmo di essere sempre stata, per attitudine e pensiero inconscio, un passo avanti a tutti gli altri. Ed è probabilmente per noi, malati di white noise e sentimento post punk, il corrispettivo che per la musica black è stata una come Aretha Franklin.
Al suo fianco, sul palco e nel privato, Agostino Tilotta, che fossimo in una gara di rimandi e paragoni sarebbe senza ombra di dubbio l’Andy Gill nato a Catania. Esagerati? Non crediamo proprio, soprattutto se con gente come loro ci si mette a ragionare dei concetti di limite e visionarietà: “Noi non pensiamo, ne’ abbiamo mai pensato, di fare qualcosa che sia aldilà del nostro limite. Non pensiamo mai di fare qualcosa che non so se ce la farò. Ed è tutto un discorso reale, non filosofico come immagineresti”. A rincarare la dose ci pensano le quattro corde bastarde di Raffaele, di giorno preside scolastico e di notte bassista noise: “Noi non abbiamo mai visto prima quello che è successo. Noi ci siamo secondo me preoccupati di assecondare la nostra passione, la voglia di suonare, e tutto ciò che è di bello uscito è uscito perché era fuori dalla nostra previsione, programmazione. Il limite sta secondo me già nel porti dei confini a un qualcosa prima di farla. Abbiamo detto vediamo quello che succede. Noi abbiamo osato, denti stretti, ci siamo sostenuti, ma senza porci mai dei limiti o facendo delle previsioni, mai”.
E’ chiaro che ormai i cavalli corrono a briglie sciolte. Si inizia a parlare di indipendenza, e anche qui, piuttosto che finire subito dritti nel coacervo delle banalità dell’esercito dell’indie, il discorso lo si affronta partendo da molto più lontano: “L’indipendenza è una cosa che devi cercare sempre nella vita, aldilà del fare musica, anche nello stirarti le magliette e lavarti le mutande. L’indipendenza coinvolge tutto l’essere, è una parola importante. Se noi guardiamo per come oggi viene sputtanato, stuprato il termine, allora si crea molta confusione. L’indipendenza vera è l’affermare se stessi. Essere liberi da schemi, gabbie, costa. Costa sacrificio, visionarietà, fatica. Però non c’è niente di più bello di essere liberi. Di dire suoniamo alla Birreria 34 a Taurianova, così come andiamo a suonare a Marsiglia, Parigi, New York, Chicago. Non c’è differenza per noi nel suonare qui o a Chicago. E’ uguale nel senso di ognuno con la propria identità”. E’ il rovesciamento dell’epica del tra palco e realtà di ligabuica memoria. Ovvio che certe cose per farle devi potertele pure permettere, devi esserci propenso e nato ad arte, col genoma costruito ad hoc. Il pallone passa a Davide, batterista: “All’inizio ci sentivamo dei terroristi, arrivavamo e facevamo le nostre cose. Ci stupivamo di questo, e questo però ci ha portato al nostro iperrealismo, perché quello che facciamo lo facciamo in modo naturale, biologico. Perchè poi tutto nasce sempre da un incontro vero, quando ci riuniamo per suonare”.
Si entra in un microcosmo così che si pensa fatto di rituali e scaramanzie, o quantomeno di ruoli prestabiliti, e invece gli Uzeda distruggono una volta in più qualsiasi preconcetto: “Sai come escono fuori i pezzi? Da un’azione inconscia. Ci mettiamo gli strumenti nelle mani ed escono delle cose incomprensibili anche a noi stessi, e poi riascoltandoci scopriamo nelle pieghe delle cose molto interessanti, che magari ci sfuggono nel momento che suoniamo. Avere un luogo dove tu ti riunisci con delle persone, in un contesto di amicizia, dove recuperi quello che c’è di più autentico di te, dove non devi dare una prestazione, guarda che sono cose estremamente importanti. Perché permettono di fare uscire quello che di te spesso è troppo ingabbiato in mille situazioni”. La ricerca del vero, prima di tutto. “Nel corso delle nostre interviste, una delle cose che più mi faceva sorridere, era quella che spesso ci additavano come un gruppo intellettuale o d’elite. Noi invece ci sentiamo di essere un gruppo del popolo. Questo perché ai nostri concerti abbiamo sempre avuto esperienza di gente che è venuta senza conoscerci e se ne è andata via con un sorriso bestiale, come se si fosse liberata di qualcosa che la opprimeva. Oppure se vogliamo essere un gruppo d’elite, siamo un gruppo di quel popolo che si identifica con una parola ormai sputtanata che è l’onesta. Noi siamo un gruppo onesto. Apparteniamo a un popolo onesto, che non fa una cosa perché è cool. Il motivo per cui facciamo questa musica è perché questa musica è naturalmente e spontaneamente così. Siamo una band per tutti, e siamo fortemente convinti che la nostra musica sia raggiungibile da tutti e per tutti. Noi ci rivolgiamo a chiunque”. Una cosa è però rivolgersi a tutti e però un’altra è che chiunque sia capace di recepire il messaggio.
Per noi Uzeda è un gruppo del popolo, un gruppo che ascoltiamo facilmente. Poi però ci si deve sempre identificare con una realtà che ci lascia soli in queste nostre cose, e questo crea in noi dei sentimenti che fanno a pugni tra di loro. Questa solitudine crea odio. Quindi è forse anche normale che delle persone dicano che Uzeda sia un gruppo per snob, per haters: “Ma noi non critichiamo assolutamente le persone che hanno questo tipo di sensazione, perché fa parte del loro percorso, è una questione anche questa di onestà appunto. Però aggiungeremmo un’altra cosa. Una cosa fatta individualmente ha un valore x, una cosa fatta assieme ad altri ha un valore enormemente più alto. E questa cosa va presa in considerazione”.
E quindi Uzeda come band capace di riuscire a camminare attraverso le generazioni. L’esempio vero non è solo il suono, è la genuinità, l’arrivare alle persone e il dire io gli sto dando questa cosa qui: “Quando si fa una cosa, qualunque essa sia, mica uno deve per forza piacere agli altri. Il punto non sta qui, il mio successo non sta qui. Uno non può obbligare gli altri ne’ ad amarti e ne’ a piacerti. Quello che fai, se tu ti senti bene, è quella cosa che poi ti dici ho comunicato quello che volevo comunicare, quello che per me era più naturale. A volte parlo con tante band giovani, e non solo, l’incubo è piacere o meno”. E torniamo alla musica italiana che citavamo all’incipit, a Baglioni e a questi piccoli e mai grandi amori: “Perché se io trovo un filone che è quello che ha un ritorno, mi metto su quel binario perché so che mi porta da qualche parte, ma mi porta sempre alla stessa stazione, dove arrivano tutti gli altri. Poi il punto è sempre lo stile, l’approccio, quando c’è un contenuto che arriva in maniera diretta e forte allora vuol dire che la musica è fatta con serietà e onestà”.
Siamo appena atterrati e abbiamo ancora un piede in paradiso. C’è ancora chi è capace di esprimere con le parole giuste un sentimento che ti porti dentro e viene da lontano. Tu chiamalo se vuoi carisma o sentimento condiviso, qui le parole ormai sono finite e la chitarra di Agostino fa salire complessi di inferiorità a chiunque si sia avvicinato allo strumento con lo stesso approccio. Noi ci siamo persi per una notte o, forse, ancora una volta, inconsapevolmente ritrovati.
Marcello Farno e Fabio Nirta